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Ieri ricorrevano i trent’anni dalla strage di via D’Amelio in cui perse la vita il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta, ma nel Tirreno cosentino la data del 19 luglio è legata anche a un altro fatto di cronaca: l’operazione anti-ndrangheta Frontiera, che fece finire in carcere (ancora una volta) il boss Franco Muto e alcuni suoi famigliari.
Cos’è cambiato dall’operazione Frontiera
All’epoca il boss Franco Muto aveva già 76 anni, la sua carriera criminale si era incamminata già da tempo sul viale del tramonto e le redini del clan, riveleranno le indagini, le aveva prese Luigi Muto, uno dei suoi figli. Luigi però non avrebbe avuto la stoffa del boss e negli ultimi tempi avrebbe commesso parecchi “errori”, come quello delle intimidazioni plateali ai danni di un noto imprenditore calabrese continuamente vessato dal clan con richieste di assunzioni e tangenti da pagare.
La mattina del 19 luglio 2016 centinaia di forze dell’ordine eseguono l’operazione e arrestano l’anziano padre, tre figli, la moglie e il genero. Cetraro è finalmente libera, si affannano a dire in molti. E invece no. Sei anni dopo, la città su cui veglia San Benedetto è ancora stretta nella morsa della violenza e della criminalità organizzata e sparatorie e attentati sono all’ordine del giorno. Per la cronaca, il boss è tornato a casa in regime di detenzione domiciliare dopo appena tre anni perché le sue condizioni di salute sarebbero incompatibili con il regime carcerario.
Cosa è andato storto
Per usare una metafora spicciola, ma efficace, potremmo dire che se togli un cancro e lasci le metastasi, le cellule tumorali continuano a riprodursi e il paziente ha poche possibilità di guarigione. Così è successo a Cetraro. Con il boss inizialmente detenuto nel carcere milanese di Opera, gli scagnozzi rimasti fuori, armi e pistole in pugno, hanno portato avanti il disegno criminale. In sei anni hanno disseminato violenza e proiettili ovunque, contro le auto degli imprenditori, contro un buttafuori, contro l’auto di un carabiniere, persino contro la loro stessa “manovalanza”. Sulla costa lo spaccio di droga ha assunto proporzioni gigantesche, come prima e forse più di prima, complici anche le nuove alleanze con le consorterie criminali crotonesi e campane.
Com’è Cetraro sei anni dopo Frontiera
Cetraro da tempo ha avviato una rivoluzione culturale che vede la città al centro di importanti Kermesse e manifestazioni sulla legalità. I licei cittadini rappresentano un’eccellenza e l’arte e il talento hanno provato a soppiantare il marcio. Molti commercianti hanno apertamente aderito alla campagna anti pizzo, mentre i cittadini hanno in più occasioni trovato il coraggio di applaudire chi è sceso in piazza a gridare i nomi di coloro che inquinano l’aria. Ma il problema criminalità c’è e resta.
Il bando per la gestione della sede del mercato ittico del porto cittadini, una volta simbolo del potere del clan, continua ad andare deserto, forse per paura di ritorsioni, mentre la sede nuova di zecca che dovrebbe ospitare la Tenenza dei carabinieri, e che porterebbe in paese un maggior numero di forze dell’ordine, continua a rimanere chiusa per un mero cavillo burocratico.
Una lunga scia di sangue
Nel frattempo sulla costa, non sono a Cetraro, si continua a sparare senza sosta. L’ultimo agguato, ai danni di un uomo del posto, è avvenuto lo scorso 21 giugno. Forse non una data a caso. Lo stesso giorno di 42 anni fa il segretario capo della procura di Paola, Giannino Losardo, mentre si trovava in auto fu raggiunto da diversi colpi di arma da fuoco, che ne provocarono la morte il giorno successivo.
L’agguato avvenne a poche centinaia di metri dalla casa del boss Muto, dapprima indagato e poi scagionato da ogni accusa in merito a quell’atroce delitto. Quando era ancora agonizzante, l’allora consigliere comunale di Cetraro avrebbe detto: «Tutta Cetraro sa chi mi ha sparato». Ma ancora oggi il suo resta un caso irrisolto, proprio come tanti degli attentati che si sono verificati negli ultimi tempi.