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Nel processo Reset, che vede alla sbarra numerosi imputati accusati di far parte della ‘ndrangheta cosentina, è tempo di arringhe difensive. Dopo la requisitoria della Dda di Catanzaro, i legali puntano a smontare l’impianto accusatorio, sostenendo l’assenza di elementi certi sulla sussistenza della confederazione mafiosa e, in alcuni casi, di un patto politico-mafioso.
L’avvocato Franco Locco, difensore di Antonio e Giuseppe Presta, ha aperto il suo intervento con un richiamo al codice di procedura penale e all’utilizzo delle intercettazioni riguardo al presunto ruolo criminale di Antonio Presta. Ha poi criticato l’uso del termine “gruppo Presta”, definito impersonale: «La responsabilità è personale, non si capisce chi è questo gruppo Presta. Antonio Presta e Giuseppe Presta non rispondono di reati fine e rischiano pene altissime, difficile spiegare queste cose se in tantissime altre sentenze i giudici hanno escluso l’esistenza del gruppo Presta».
«Discorso inverso per Franco Presta, condannato in Terminator 4 per associazione mafiosa, per reati contestati fino a dicembre 2011 a Cosenza nell’ambito del clan diretto da Lanzino e Patitucci. Ricordo – sottolinea il penalista – che Antonio, Giuseppe e Roberto Presta non hanno favorito la latitanza di Franco Presta e ricordo a me stesso che Antonio e Franco Presta non sono mai stati indagati insieme».
«I pentiti su Giuseppe Presta non indicano nessuna appartenenza a una cosca mafiosa». Poi un accenno alle spese legali: «Il problema è quando non viene pagato l’avvocato, non il contrario». Ed infine spiega: «Presta esclusi dalla confederazione dal furto avvenuto a Roggiano Gravina ai danni di una parente di Sandro Vomero. Furto compiuto dagli zingari, e la confederazione dov’è?›, si è domandato l’avvocato Franco Locco.
Il presunto patto politico-mafioso a Rende
L’avvocato Eduardo Florio, difensore di Eugenio Filice, ha definito il procedimento «un processo indiziario› e ha contestato la chiave di lettura delle intercettazioni, che a suo dire non aderisce alla realtà: «Filice ha sostenuto Manna perché credeva in quel progetto politico, non aveva interessi personali, un libero cittadino sposa un’idea di città».
L’avvocato Franco Sammarco, anch’egli difensore di Filice, ha criticato l’impianto accusatorio: «Il capo d’imputazione è il momento fondativo del processo stesso e a seguirlo si capisce che c’è qualcosa che non torna nell’impianto accusatorio formulato dal pubblico ministero». Ha citato una sentenza della Cassazione, cautelare, relativa a Orlando Scarlato, co-imputato, che esclude ogni condotta illecita nel reato, e l’assoluzione di Adolfo D’Ambrosio nel processo abbreviato di Reset, interpretando la formula in assenza delle motivazioni del giudice che, tra le altre cose, sono prossime alla scadenza: «Massimo D’Ambrosio, fratello di Adolfo, non ha operato per suo conto e in sue veci. Ciò significa inoltre che non vi è traccia del metodo mafioso».
Il noto penalista ha anche richiamato le intercettazioni, ricordando che sono un mezzo di ricerca della prova, ma «non ce n’è nessuna che valga un giudizio di responsabilità sul fatto. Le intercettazioni non sono la prova di un patto e questo non lo si può enunciare e postulare come propria elaborazione».
Riferendosi alle contestazioni identiche a Rende dal 1999 ad oggi, Sammarco ha definito tale impianto come un «accordo quadro che non sta in piedi, come se rinnovasse tacitamente», citando i precedenti processi “Sistema Rende”, dove «non è mai stato provato il patto politico-mafioso».
Processo Reset, il capitolo Gaming
Gli avvocati Mancuso e Bonario, difensori di Marcello Rizzuti, sono intervenuti sul filone legato al Gaming: «L’indagine è stata svolta con leggerezza e non ha dimostrato la fondatezza dell’impianto accusatorio».
La posizione di Andrea Mazzei
Dichiarazioni spontanee sono giunte anche da Andrea Mazzei: «Su Roberto Porcaro non ho mentito, ho illustrato le date e le circostanze allorquando l’ho incontrato dal vivo. Su Alessandro Catanzaro, invece, dico che l’ho conosciuto nel 2011 avviando una pratica di finanziamento relativamente a un’attività di acconciature maschili e femminili e altre pratiche, quindi lo conosco. Ho chiamato avvocato Porcaro solo in due circostanze, in altre circostanze i motivi erano esclusivamente professionali con riferimenti a un vero avvocato cosentino. Inoltre, garantisco che Porcaro non conosce Filippo Morrone».
Visibilmente commosso, ha aggiunto: «Penso che l’approccio investigativo avuto nei miei confronti sia stato prevenuto, gli ufficiali di pg avrebbero dovuto verificare i rapporti professionali con le aziende. La scelta della forma giuridica non è servita a camuffare qualcosa, ma era l’unica consentita dalle norme per garantire servizi efficienti. Ribadisco – rivolgendosi ai giudici – non sono un mafioso e ho fiducia nella giustizia». Al termine, le arringhe difensive degli avvocati Michele Franzese e Sergio Rotundo di cui daremo conto in un altro servizio.