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Due considerazioni diverse nelle sentenze di “Testa di Serpente“, una emessa dall’allora gup di Catanzaro Matteo Ferrante e l’altra dal tribunale collegiale di Cosenza, presieduto dal presidente Carmen Ciarcia, circa la sussistenza dell’aggravante della confederazione mafiosa tra Cosenza e Rende,
Nel giudicare gli imputati che sono stati condannati nel processo conclusosi lo scorso mese di luglio, i giudici di Cosenza hanno ritenuto sussistente sia l’aggravante del metodo mafioso che quella dell’agevolazione mafiosa. Al contrario, nella sentenza di primo grado del rito abbreviato, il presidente Ferrante aveva evidenziato come la seconda contestazione, relativamente all’aggravante dell’agevolazione della confederazione mafiosa, non potesse configurarsi per una serie di ragioni.
Da “Testa di Serpente” a “Reset”
Come abbiamo sottolineato in più circostanze, l’indagine “Testa di Serpente”, alla luce della maxi inchiesta “Reset“, ha rappresentato un antipasto investigativo di notevole importanza, poiché ha permesso agli inquirenti di bloccare le condotte delittuose del gruppo Porcaro e di quello riconducibile alla famiglia Abbruzzese “Banana“.
Se dalla parte degli italiani il vuoto di potere era stato colmato dalla scarcerazione di Francesco Patitucci, assolto il 4 dicembre 2019 per l’omicidio di Luca Bruni, da quella degli “zingari” il comando sarebbe stato assunto dagli imputati di “Reset“, Gianluca Maestri e Ivan Barone, quest’ultimo collaboratore di giustizia. Proprio il pentito ha fornito ai magistrati della Dda di Catanzaro alcuni elementi comprovanti quanto sostenuto in sede di interrogatorio.
“Testa di Serpente”, il processo abbreviato
Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, rito abbreviato, il giudice Matteo Ferrante aveva articolato le sue valutazioni di merito suddividendo il prospetto accusatorio in due parti:
- L’esistenza della cosca “Lanzino-Patitucci” di Cosenza, «nel cui interesse le condotte criminose sarebbero finalizzate», quelle relative alle estorsioni e all’usura
- L’esistenza di un patto confederato con la propaggine criminale degli zingari
Ebbene, il giudicante si era espresso in questi termini: «A ben vedere, mentre il primo elemento costituisce il perno attorno al quale ruota la sussistenza o meno dell’aggravante dell’agevolazione mafiosa, il secondo non assume alcuna incidenza sul punto, quantomeno nell’economia delle posizioni qui giudicate. Infatti, nessuno dei reati per cui è condanna si postula essere stato commesso al fine di agevolare la confederazione in quanto tale, bensì, in via diretta ed immediata, l’una e l’altra consorteria criminale asseritamente aderente al patto confederato». In quella fase il gup aveva sollevato la questione circa la mancata contestazione dell’art. 416 bis agli esponenti della famiglia Abbruzzese “Banana”. Nucleo che, dal punto di vista giudiziario, non può essere considerato ancora un clan di ‘ndrangheta.
“Testa di Serpente”, le motivazioni sull’aggravante mafiosa
Quando i giudici di Cosenza sono stati chiamati a valutare la sussistenza o meno dell’aggravante mafiosa, hanno precisato «che la norma citata disciplina due ipotesi distinte, quantunque logicamente connesse». E aggiungono: «La prima, di carattere prettamente oggettivo in quanto investe le modalità con cui è commesso il fatto, ricorre quando l’agente, pur senza essere partecipe o concorrente nel reato associativo, pone in essere una condotta che sia idonea ad esercitare una particolare coazione psicologica con i caratteri propri dell’intimidazione derivante dall’organizzazione criminale della specie considerata».
«In tal caso – ricordano i giudici – non è necessario che l’associazione mafiosa, costituente il logico presupposto della più grave condotta dell’agente, sia in concreto precisamente delineata come entità ontologicamente presente nella realtà fenomenica; essa può essere anche semplicemente presumibile o, addirittura millantata, nel senso che la condotta stessa, per le modalità che la distinguono, è già di per sé tale da evocare nel soggetto passivo l’esistenza di consorterie e sodalizi amplificatori della valenza criminale del reato commesso».
Ciò posto, i giudicanti sostengono che «non è, peraltro, richiesta necessariamente l’appartenenza al clan, avendosi riguardo specificatamente alle modalità del fatto. L’aggravante, invero, è configurabile anche a carico di soggetto che non faccia parte di un’associazione di tipo mafioso, ma ponga in essere, nella commissione del fatto a lui addebitato, un comportamento minaccioso tale da richiamare alla mente ed alla sensibilità del soggetto passivo quello comunemente ritenuto proprio di chi appartenga a un sodalizio del genere anzidetto».
I rapporti tra Porcaro e Luigi Abbruzzese
Nel caso in esame, aggiunge il tribunale collegiale di Cosenza, «l’analisi dei fatti in contestazione lascia emergere più elementi che depongono per la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso, tra cui le modalità di approccio alle vittime, oggetto di minacce dirette e velate perpetrate con comportamenti tipicamente “mafiosi”, gli atteggiamenti intimidatori rafforzati per mezzo del costante richiamo alle figure di Porcaro e Luigi Abbruzzese, rispettivamente a capo della cosca “Lanzino-Patitucci” e della consorteria confederata Abbruzzese-Banana», un passaggio che, ad esempio, nell’altra sentenza, alla luce degli atti presenti in abbreviato, non troviamo, «nonché il loro intervento diretto nelle fasi di maggiore concitazione delle vicende criminali».
I riscontri per i giudici? “Terminator 4” e i pentiti
Riguardo all’agevolazione mafiosa, i giudici hanno evidenziato che agli atti del dibattimento è stata acquisita copia della sentenza “Terminator 4” passata in giudicato, «che ha accertato – scrivono – l’esistenza della consorteria “Lanzino-Patitucci“, sinteticamente indicata come gruppo degli “italiani” di cui era personaggio di spicco Roberto Porcaro». Tesi rafforzata dalle propalazioni dei collaboratori di giustizia: Celestino Abbruzzese, Luciano Impieri, Anna Palmieri, Vincenzo De Rose e Giuseppe Zaffonte. Pentiti che – secondo il collegio – «hanno all’unanimità rappresentato con dovizia di dettagli la sussistenza della consorteria degli “zingari Banana” e del patto che aveva stretto con il clan degli italiani cui era a capo, nel periodo di interesse, Roberto Porcaro».
Collaboratori credibili
«Ciò posto» spiegano i togati Carmen Ciarcia, Stefania Antico e iole Vigna, «si deve ritenere la totale attendibilità delle propalazioni rese in dibattimento da tutti i collaboratori di giustizia. Gli stessi univocamente riferivano dell’esistenza del sodalizio criminale “zingari Banana“, che agiva unitamente al clan “Lanzino-Patitucci” per il tramite di Porcaro, reggente della cosca degli italiani nonché punto di riferimento per il clan dei Banana, come più volte riferito. Dalle dichiarazioni dei collaboratori, in particolare, è emerso che estorsioni, traffico di droga ed usura, in uno alla disponibilità ingente di armi, connotano l’attività criminale caratteristica dei due clan, che concertavano tra loro le modalità di realizzazione dei crimini per il controllo del territorio».
Rigettate le richieste di astensione e ricusazione
Per il tribunale collegiale di Cosenza, nel corso dell’istruttoria dibattimentale di “Testa di Serpente” sarebbe emersa «una regia occulta a sfondo mafioso» che consentirebbe quindi di sostenere, ogni ragionevole dubbio, la sussistenza della finalità agevolatrice «con riferimento a tutte le ipotesi di reato contestate, ad eccezione dell’estorsione realizzata» in danno di un uomo, «per la quale emerge la realizzazione di un interesse privato di Alberto Turboli». In definitiva, l’aggravante richiamata sarebbe sussistente «senza dubbio» anche «per i reati in materia di detenzione di sostanza stupefacenti e di armi».
Queste motivazioni hanno determinato la richiesta di astensione presentata dal presidente Carmen Ciarcia, rigettata dal presidente del tribunale di Cosenza, Maria Luisa Mingrone. Valutata, di recente, anche l’ultima istanza di ricusazione avanzata in Corte d’Appello a Catanzaro, dichiarata inammissibile.