Erano elementi «ambigui” quelli che il 1° settembre del 2022 hanno portato all’interdizione dal servizio del finanziere cosentino Enrico Dattis, una ricostruzione «poco persuasiva» ha portato a ritenere che fosse lui l’esponente in divisa che, attraverso il suocero di Michele Rende, passava informazioni riservate al clan Patitucci di Cosenza, ma è un teorema che deriva da un sillogismo; della serie: visto che appartiene alla Guardia di finanza ed è amico del soggetto in questione, allora la talpa non può essere che lui.

E invece no. Lo scorso 22 novembre la Corte di Cassazione ha annullato il provvedimento emesso quasi due anni prima dal gip nell’ambito dell’operazione antimafia “Reset” e confermato poi dal Tribunale del Riesame, rilevando l’assenza di gravità indiziaria a carico di Dattis, ora in attesa di una nuova udienza del Riesame che rivaluti la sua posizione nell’ambito dell’inchiesta.

Del resto, i suoi difensori Nicola Rendace e Giovanni Carlo Tenuta lo avevano evidenziato nei motivi d’appello presentati ai giudici: il loro assistito non apparteneva al gruppo di militari impegnati direttamente nelle indagini, né risultano contatti fra lui e quest’ultima cerchia di investigatori. Come faceva, dunque, a essere informato sugli accertamenti in corso all’epoca?

E non solo. Dopo la sua sospensione del servizio, è emerso con certezza che non era lui a intrattenere rapporti diretti con Michele Rende, bensì un altro dei suoi colleghi. Un dettaglio decisivo ritenuto «inutilizzabile» dai giudici romani, ma che ha comunque consolidato il loro giudizio sulla vicenda: nei confronti di Dattis è stato operato «un salto logico» che ha portato a ritenerlo responsabile nonostante la mancanza di «indizi e riscontri individualizzanti».