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È una delle intercettazioni più importanti di “Reset”, probabilmente quella che fa da copertina alla maxi-inchiesta. Racconta di un corteggiamento. O se vogliamo, di una trattativa simile a quelle che si fanno durante il calciomercato. Quella che va in scena il 26 luglio del 2019 in un appartamento di Rende, però, è molto di più: è un summit di mafia che vede protagonisti Adolfo D’Ambrosio e Mario “Renato” Piromallo. Il primo è stato scarcerato da pochi giorni e, dopo diversi anni trascorsi al 41 bis, cerca di orientarsi nello scenario frastagliato delle bande cosentine nella speranza di potersi ricollocare. In quelle ore, valuta la possibilità di aderire al gruppo di Piromallo e così gli ha chiesto un incontro per capire se ci sia un posticino libero anche per lui.
È un documento eccezionale, dicevamo, perché grazie alla cimice piazzata in quel locale, i carabinieri assegnano certezze a quello che, fin lì, è ancora un sospetto: il clan Lanzino, in quel momento guidato da Francesco Patitucci, è attraversato da malumori interni che hanno creato una profonda spaccatura tra i gerarchi dell’organizzazione. In quel periodo, infatti, Piromallo ha saldato i propri interessi con quelli di Salvatore Ariello, presente anche lui al meeting rendese, e a loro fa da contraltare l’asse tra Michele Di Puppo e Roberto Porcaro che vanta anche il sostegno del clan degli zingari. I rapporti tra le due fazioni sono nel segno della conflittualità. «C’è più gelosia e invidia che fratellanza» è la frase lapidaria con cui Piromallo descrive quell’attualità, lamentandosi del fatto che gli affari illeciti sono ostacolati da persone che mettono «zizzanie». Eppure, le aspettative erano molto differenti. A D’Ambrosio, infatti, racconta di come, in origine, Di Puppo gli avesse manifestato l’esigenza di gestire in autonomia le estorsioni di sua competenza. «Perché se io devo andare a chiudere un’estorsione e mi divido i soldi con due o tre persone o quattro persone, tengo meno motivazione» gli aveva detto in quella occasione il collega, titolare della piazza rendese di racket e spaccio. «Michè – era stata la risposta di Renato – se sta bene a te, sta bene pure a me. L’importante è che noi mandiamo i soldi ai carcerati».
L’accordo era stato stretto su questi presupposti, e cioè che ognuno provvedesse, per ciò che gli compete, al mantenimento degli affiliati dietro le sbarre. «Siamo arrivati a un punto che i cristiani detenuti ce li siamo divisi» sottolinea ancora Piromallo, salvo poi raccontare di come, in seguito, il patto fosse stato violato al punto da diventare «una presa in giro». In tempi passati, sostiene di essersi fatto carico da solo dell’incombenza – «Ho mandato pezzi di pane a tutti quanti» – e ora che il compito dovrebbe essere «più agevole», si lamenta, ora che a occuparsene sono addirittura quattro o cinque persone, il meccanismo «non funziona più». Dopo un’oretta di conversazione, Piromallo lancia la sua offerta all’interlocutore: gli propone di entrare in squadra con lui, ma non vuole che si senta obbligato. Lo esorta a sentire anche le campane: sia Di Puppo che Porcaro con il quale riconosce di essere, ormai, ai ferri corti, tanto che «un altro poco neanche ci salutiamo per strada». Al tempo stesso, però, lo invita non fidarsi di nessuno. «Non fidarti neanche di me» aggiunge in modo suggestivo. Poi, dispensa buoni consigli: «Dedicati alla famiglia».
Da quando è tornato in circolazione, D’Ambrosio non ha incontrato altri capibanda. Piromallo è la sua prima scelta. Di lui dice di apprezzare soprattutto «la serietà» e «l’esperienza», ma chiede garanzie nell’eventualità, per lui malaugurata, di un suo ritorno dietro le sbarre. È rimasto scottato in passato, quando ha dovuto provvedere da sé al pagamento delle spese legali senza ricevere aiuto da parte della cosca e non vuole che la storia si ripeta. Il boss lo rassicura. Gli confida di essersi trovato nella stessa situazione ai tempi della sua condanna a diciotto anni per l’omicidio dell’imprenditore cosentino Franco Bruno, titolare dell’omonimo molino. In quel caso, per fronteggiare il momento difficile, aveva fatto leva sulla propria forza di volontà. «Dopo sei mesi in carcere ho smesso di fumare. I soldi che risparmiavo li mandavo alla famiglia. E gli avvocati me li sono pagati da solo».
La prospettiva di tirare dalla sua parte D’Ambrosio sembra interessarlo, ma nei suoi confronti ostenta distacco, gli lascia ampia facoltà di scelta: «Poi ne parliamo, vediamo la situazione, eh vuoi fare come facciamo noi, ti trovi meglio con loro, prendi il materiale – la droga, ndr – con loro, ti fai l’estorsione con loro. Non la vuoi chiudere con loro, non la vuoi chiudere con noi, non ne vuoi chiudere, eh ti vuoi prendere un carcerato, un mezzo carcerato. Sono nove, siamo fuori cinque, facciamo nove diviso cinque». Fino a quel momento è stato abilissimo a dribblare i pericoli rappresentati dalle intercettazioni telefoniche e ambientali. «Ringraziando a Dio, ad oggi con le parole non ci hanno mai pizzicato perché abbiamo avuto sempre rapporti diretti» chiarisce, aggiungendo poi di non utilizzare mai cellulari proprio per questa ragione. «Né che mandi ad uno a parlare, con tutto il rispetto, perché le parole possono arrivare pure modificate». Presto o tardi, però, anche quelli più sgamati finiscono per cadere nella rete. Basta il passo falso di un giorno per vanificare tutte le precauzioni adottate nel corso di una vita. Mentre si congeda da D’Ambrosio, Piromallo ancora non lo sa, ma quel giorno per lui è appena arrivato.