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Ha ammesso di aver spacciato droga e di aver fatto parte di un gruppo criminale, ma garantisce che tutto questo gli appartiene più. Con quel mondo, infatti, sostiene di aver chiuso per sempre perché l’ha promesso «ai suoi figli». Parola di Michele Di Puppo.
L’ultima novità di “Recovery” è rappresentata dalle dichiarazioni spontanee di uno degli indagati eccellenti della maxi-inchiesta antidroga. E si tratta di parole destinate a lasciare un segno. Quella operata da Di Puppo, infatti, è stata una dissociazione in piena regola: ha confessato i propri reati senza accusare altre persone. Una strategia difensiva già adottata, in precedenza, da altri esponenti della vecchia malavita di Cosenza durante il processo “Garden” e che, poche ore fa, è tornata attuale durante l’udienza del Riesame chiesto dai suoi difensori, Angelo Pugliese e Gianluca Garritano.
Un’udienza tesa, durante cui, l’uomo considerato come uno dei gerarchi più alti in grado del clan Lanzino, colui il quale – per dirla con il pentito Diego Zappia – aveva ottenuto, di recente, il merito ‘ndranghetistico della “Stella”, ha scelto invece di recidere il cordone con il proprio passato. A riprova di ciò, Di Puppo ha dato lettura in aula a un lungo documento di rivendicazione, negando di essere mai stato capo promotore di associazioni mafiose. Si è definito semmai un “solista” del narcotraffico in tema di «erba, fumo e cocaina, mai eroina». Ha affermato, infine, di aver agito sempre in assoluta autonomia e, a riscontro, ha citato alcune intercettazioni di “Reset”. Un momento a modo suo epocale e certamente finalizzato a chiudere la partita giudiziaria, limitando il più possibile i danni. Contestualmente, si è dispiegata anche l’offensiva dei suoi legali che, oltre al deposito di una corposa memoria difensiva, hanno chiesto la nullità di diversi atti d’indagine che lo riguardano, lamentando anche le cosiddette contestazioni a catena.
Dopo di lui, è toccato a un altro indagato di peso, Roberto Porcaro. Anche il suo appuntamento con il Riesame non ha tradito le aspettative. Per la terza volta, il presunto vice di Francesco Patitucci ha utilizzato la metafora del «bicchiere di vino» associata alle inchieste in cui è coinvolto – poiché, a suo dire, poco lucide – definendo poi profondamente «ingiusto» il fatto di trovarsi imputato in più processi sempre «per gli stessi reati». Gli ha dato manforte il suo difensore Mario Scarpelli che, richiamandosi a vizi procedurali dell’inchiesta, ha chiesto di liquidare come «inutilizzabili» gli atti d’indagine che riguardano Porcaro dal 2019 in poi, dichiarazioni dei pentiti incluse.
Sempre in giornata, si sono svolti anche i Riesami di Bruno Bartolomeo e Antonio Caputo. Ancora Scarpelli, dal versante difensivo, ha evidenziato come entrambi siano stati arrestati, di recente, con l’accusa di spaccio di droga “semplice”, slacciato dunque da contesti associativi. Un’anomalia, a suo avviso, considerato che i pubblici ministeri, titolari di quell’inchiesta da Procura ordinaria, sono gli stessi applicati dalla Dda in “Recovery”. Sul punto è arrivato in aula il tentativo di chiarimento da parte di uno dei diretti interessati, ma da quella replica le difese hanno tratto ulteriore convincimento della bontà delle proprie tesi. A scanso di equivoci, i giudici decideranno nelle prossime ore se apportare delle modifiche alle posizioni cautelari degli indagati o se lasciare il quadro immutato.