Cinquemila euro in contanti per avviare un’impresa di sicurezza, poi dodici rate mensili da 500 euro e infine l’amara scoperta: secondo Roberto Porcaro, quella somma copriva solo gli interessi, mentre il capitale andava restituito per intero. È questo il cuore del capo 34 della sentenza Reset, che ha portato alla condanna per usura aggravata del presunto (ex) reggente del clan degli Italiani.

La vittima è Giuseppe Caputo, titolare della Security XXL Protection, attiva nel settore degli eventi in Calabria e coinvolta anche nell’organizzazione di un noto evento rendese nel 2018. È lui stesso, nel corso dell’udienza del 12 ottobre 2023, a raccontare come, in un momento di difficoltà economica, fu proprio il cugino Francesco Greco a proporgli un prestito da parte di Porcaro. L’accordo prevedeva, inizialmente, la restituzione di 5mila euro in rate mensili da 500 euro. Ma dopo il dodicesimo pagamento, Caputo scoprì che «quei soldi erano solo interessi».

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L’intercettazione chiave

È del 16 ottobre 2018 la conversazione che chiarisce i termini del rapporto. Porcaro, parlando con Caputo, afferma senza mezzi termini: «Non è così che… avevamo parlato di 5mila euro… che c’entrano i 500 euro…». E ancora: «I soldi io li do così, io beneficenza non ne faccio!».

Il dialogo prosegue con Porcaro che rivendica il diritto a ricevere ulteriori 5mila euro, sostenendo che «i 6mila già versati erano solo per coprire gli interessi», pari al 10% mensile. Caputo replica di aver agito secondo quanto indicatogli dal cugino Greco, e aggiunge: «Io li sto parlando con tutta la sincerità totale». Ma Porcaro non cede: «Se non mi rientrano i 5mila euro…».

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La paura della vittima e il ruolo del clan

Nelle ore successive, Caputo racconta tutto a Greco, che lo invita a riferire a Porcaro la “scorrettezza” del suo comportamento. La risposta dell’imprenditore è emblematica: «No, io “scorretto” non glielo dico! Non lo sai che reazione può avere!». I due si recano insieme a casa di Porcaro, dove – come confermato dal GPS dell’auto e da un’intercettazione ambientale – discutono ancora del debito, ipotizzando nuovi modi per “uscirne”, senza alcuna apertura da parte dell’usuraio.

A confermare tutto è Francesco Greco, oggi collaboratore di giustizia, che ammette il proprio ruolo di intermediario: «Sono responsabile come intermediario dell’usura ai danni di mio cugino Giuseppe Caputo… il capitale prestato era di 5mila euro, il tasso mensile era del 10%».

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La condanna e le aggravanti

Per il gup Giacchetti, la responsabilità di Porcaro è provata «oltre ogni ragionevole dubbio». Riconosciuta anche la sussistenza di tutte le aggravanti previste dall’articolo 644, comma 5, (numeri 3 e 4), considerato lo stato di bisogno della vittima, che aveva bisogno dei fondi per «ottenere i brevetti necessari all’attività».

Decisiva è anche la contestazione del metodo mafioso e della finalità di agevolare l’associazione di cui al capo 1. Porcaro, infatti, specifica che i soldi «non erano i suoi», ma che «li stava facendo girare», lasciando intendere una provenienza illecita e collettiva, tipica della “bacinella comune” utilizzata dai clan. «Non mi interessa quale sia il problema, a me dovete dare o i 500 euro o i 5mila euro», diceva Porcaro, facendo leva su una logica intimidatoria.