La Corte di Cassazione ha emesso la sua sentenza sul ricorso presentato da Gianfranco Sganga, imputato nel maxi-processo Recovery, confermando la misura della custodia cautelare in carcere per i reati di associazione mafiosa, traffico di stupefacenti ed evasione. Tuttavia, la Suprema Corte ha annullato parzialmente l’ordinanza del Tribunale del Riesame di Catanzaro, disponendo un nuovo giudizio per due capi d’accusa relativi alla detenzione e spaccio di stupefacenti.

Le accuse e la decisione della Cassazione

Sganga, originario di Cosenza, è accusato di essere un membro di spicco della ‘ndrangheta cosentina, in particolare della cosiddetta confederazione di Cosenza, guidata dal boss Francesco Patitucci. Secondo la ricostruzione della Dda di Catanzaro, l’imputato avrebbe ricoperto un ruolo apicale nel coordinamento delle attività illecite del gruppo, tra cui estorsioni, traffico di droga e detenzione illecita di armi.

Il Tribunale del Riesame di Catanzaro aveva confermato l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal Gip, riconoscendo la sussistenza di gravi indizi di colpevolezza per i reati contestati. La difesa, rappresentata dall’avvocato Giampiero Calabrese, aveva presentato ricorso, contestando la validità delle intercettazioni e sostenendo che non vi fosse prova concreta di un patto associativo o di una struttura organizzata riconducibile a Sganga.

I motivi del ricorso e le motivazioni della Cassazione

La difesa ha articolato il ricorso su quattro punti principali. Nel caso del reato di associazione mafiosa, l’avvocato Calabrese ha contestato la partecipazione di Sganga alla ‘ndrangheta, affermando che l’accusa si basava su un’interpretazione forzata delle intercettazioni e su dichiarazioni di collaboratori di giustizia non sufficientemente riscontrate. In merito al traffico di droga, o meglio narcotraffico, il difensore ha sostenuto che non vi fossero prove concrete che legassero Sganga al traffico di stupefacenti, sebbene fosse noto che la vendita di droga nel territorio fosse regolata dalla criminalità organizzata. Inoltre, per i capi d’accusa relativi alla droga, la difesa ha evidenziato la mancanza di prove sulla destinazione dello stupefacente sequestrato, chiedendo la derubricazione del reato a ipotesi di lieve entità. Ed infine, il penalista ha contestato la necessità della custodia in carcere, sostenendo l’assenza di pericolo di fuga e chiedendo misure meno afflittive.

    La Cassazione ha rigettato le prime tre contestazioni, confermando la validità delle prove raccolte nel corso delle indagini, tra cui dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia e intercettazioni ambientali che delineano il ruolo direttivo di Sganga nelle attività criminali. Tuttavia, ha ritenuto insufficientemente motivata l’ordinanza per quanto riguarda due episodi di detenzione e spaccio di droga (capi d’imputazione 382 e 384), disponendo un nuovo giudizio al Tribunale del Riesame per una valutazione più approfondita.