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Da Giuseppe Zaffonte a Edyta Kopaczynska, passando per Luciano Impieri, Vincenzo De Rose e Daniele Lamanna, con l’aggiunta di Mattia Pulicanò, Ernesto Foggetti e Francesco Noblea, un tocco di Giuseppe Montemurro e il colpo finale di Ivan Barone e Francesco Greco. È un parla-parla davvero notevole quello che, in termini investigativi, fa da sfondo all’omicidio di Giuseppe Ruffolo. E c’è una cosa che accomuna tutti i pentiti di ‘ndrangheta interpellati fin qui dalla Dda: si esprimono tutti per sentito dire.
L’unico che aggiunge informazioni apprese in modo diretto è anche uno che pentito non è. O meglio, non lo è più. Danilo Turboli, infatti, riporta le mezze frasi che sostiene di aver sentito proprio da Roberto Porcaro, nel 2019, ai tempi della sua prima scarcerazione per il caso Ruffolo. In quel caso, il boss si sarebbe rallegrato con lui del fatto che era andato «tutto bene» anche perché, a suo dire, gli investigatori «non c’avevano capito niente». Dichiarazioni poi ritrattate da Turboli, la cui parabola esistenziale ricalca un po’ quella del suo capo.
Anche Porcaro, infatti, vanta trascorsi da meteora del pentitismo. Ha vestito questi panni per quattro mesi, nel 2023, salvo poi dire di essersi inventato tutto. Prima della ritrattazione, però, aveva parlato anche di Ruffolo, negando di avere avuto un ruolo nell’omicidio. Anzi, il contrario. Non a caso, Porcaro sostiene di aver tentato di frenare l’ardore di un Massimiliano D’Elia, determinato a uccidere. Afferma di aver provato a salvare la vittima designata, da lui conosciuta personalmente, e di essersi proposto anche come mediatore fra i due, nella speranza di scongiurarne la morte.
Riferisce, inoltre – ed è il dato forse più convincente dell’intera testimonianza – della contrarietà mostrata da Francesco Patitucci dopo l’agguato per il fatto che lo stesso si fosse consumato a pochi metri dalla sua abitazione, all’epoca ubicata in via Fratelli Cervi. Tutt’altra cosa, insomma, rispetto a ciò che propone la schiera di pentiti, secondo i quali proprio lui si sarebbe poi vantato con Patitucci di essere stato l’ispiratore di quel crimine.
Lo scontro con Impieri & co. abbraccia anche ciò che sarebbe avvenuto dopo l’omicidio. Porcaro, infatti, sostiene di aver allontanato dal suo gruppo D’Elia per quel suo atteggiamento da mina vagante, quasi tutti i collaboratori, invece, riferiscono che, all’interno dell’organizzazione, il sicario fosse cresciuto in termini di prestigio proprio per quella missione di morte eseguita con successo.