L’uomo sbagliato nel posto sbagliato. La storia di Francesco Masala è riassunta in questa massima che si richiama ai fatti tragici di piazza Kennedy del 26 ottobre 1985. Quel giorno, un impiegato comunale di 28 anni, Sergio Palmieri, viene ucciso con un colpo di pistola in testa e, per la sua morte, in seguito, sarà condannato proprio Masala, all’epoca dei fatti diciottenne. Trascorrerà quattordici anni in carcere, nonostante quel delitto non l’abbia commesso. A partire dal 1993, infatti, diversi pentiti di ‘ndrangheta attribuiscono la responsabilità ai già defunti Marcello Gigliotti e Francesco Lenti. Ne parlano Roberto Pagano e Franco Pino, ma a loro nel tempo, si aggiungono Vincenzo Dedato, Pierluigi Berardi e altri ancora.

Masala ha già scontato per intero la sua pena quando si apre il suo processo di revisione che, però, non sortirà effetti riabilitativi. I pentiti potrebbero essersi accordati con lui per dividere il risarcimento per ingiusta detenzione, lasciano intendere i giudici di Salerno nel confermare il verdetto di colpevolezza. Il risultato è che l’errore giudiziario non sarà mai sanato. Ora, però, una nuova testimonianza si aggiunge al coro innocentista. A parlare è sempre un collaboratore di giustizia, anzi una collaboratrice, ma che in questa vicenda assume vesti molto differenti. Si chiama Anna Palmieri. Ed è la figlia della vittima.

L’inchiesta parallela di Anna Palmieri

La donna, rimasta orfana a cinque anni, è andata per tutta la vita in cerca della verità sulla morte del genitore. Chi lo ha ammazzato? E perché? La coppia criminale che forma con “Micetto” Celestino Abbruzzese l’aiuta nel suo lavoro d’inchiesta che, coniuge a parte, si avvale già di fonti qualificatissime. E le conclusioni a cui approda, sono in linea con il pensiero comune: non è stato Masala a uccidere suo padre. E non solo. Anna, infatti, aggiunge i tasselli ancora mancanti a questa vicenda, sgombra il campo dai dubbi residui che aleggiano su di essa e che riguardano soprattutto il movente del delitto.  

I temibilissimi Lenti e Gigliotti

Nel contesto criminale dell’epoca, Lenti e Gigliotti sono due schegge impazzite e, non a caso, moriranno in modo orribile, a febbraio del 1986, per mano dei loro stessi compagni d’arme che li reputano ormai ingestibili. Sulla carta, i due appartengono alla banda Pino, ma nella realtà sono cani sciolti che fanno sfoggio di autonomia e indisciplina a suon di rapine e omicidi. Palmieri lo uccidono per via di dissapori legati alla ricettazione di alcuni ori e preziosi trafugati, attività che l’impiegato comunale coltiva in gran segreto. In seguito, Pino indica i gioielli della discordia in quelli sottratti con la violenza a un notabile di Castrolibero, ma l’ex boss si sbaglia – la rapina in questione si consuma solo dopo la morte di Palmieri – e proprio questa imprecisione offrirà un pretesto ai giudici per dichiararlo inattendibile sull’argomento. Anna Palmieri corregge l’errore di Pino e inquadra il vero antefatto della vicenda.

Il vero movente del delitto Palmieri

Non si sarebbe trattato di una disputa sul valore della merce, con un prezzo al ribasso pagato dal ricettatore ai rapinatori. A Palmieri, infatti, Lenti e Gigliotti contestano un tradimento riferito a un’altra rapina, commessa però a casa del farmacista Vocaturo. «Erano stati arrestati dopo la rapina e pensarono che a fare la soffiata fosse stato mio padre perché amico del poliziotto Lillino. Lo ritenevano responsabile perché, prima del colpo, sono andati da lui per chiedergli se fosse disposto a ricevere l’oro che pensavano di trovare a casa del farmacista. Mio padre disse che avrebbe ricettato i gioielli, ma comunque non fu lui a tradirli».

Come lo ha appreso Anna Palmieri

Tutto ciò Anna Palmieri lo avrebbe appreso da suo nonno Aurelio Carrieri, «personaggio molto rispettato a Cosenza. Mi diceva sempre che non era stato Masala a uccidere mio padre, che giustizia era stata fatta e che quindi non dovevo pensarci più».  Informazioni ancora più dettagliate le ottiene da suo zio Carmine Pezzulli, divenuto negli anni Novanta un pezzo grosso del clan Cicero salvo poi cadere anche lui nel 2002, vittima del fuoco amico. Almeno inizialmente, Pezzulli non avrebbe voluto affrontare l’argomento con la nipote. Si limita a dirle che «quello che doveva essere fatto è stato fatto»,  ma Anna lo incalza: «Gli ho detto che volevo sapere com’erano andate le cose, altrimenti non mi sarei mai fermata». E così lo zio le racconta tutto su vita, morte e malefatte di Lenti e Gigliotti.

Morte di un impiegato

Il 26 ottobre del 1985 è un giorno di pioggia a Cosenza. Intorno alle 5 del pomeriggio, i ragazzi sono come al solito assiepati a piazza Kennedy, luogo di ritrovo abituale per la generazione dell’epoca. Masala e i suoi amici hanno trovato riparo in un portone e se stanno lì a chiacchierare. Francesco ha da poco compiuto la maggiore età, è incensurato e se ne sta lontano dalle cattive frequentazioni. La sua adolescenza l’ha trascorsa a Paola, nel collegio dei frati Minimi, e da pochi mesi ha fatto ritorno nella sua città d’origine. Palmieri sta parlando con lui quando Lenti e Gigliotti passano da lì e si accorgono della presenza di quel ricettatore, da loro ritenuto infedele. È questione di attimi, l’ispirazione assassina di un momento, fatto sta che Gigliotti si fa largo tra la folla e gli ombrelli, estrae la pistola e punta dritto alla testa di Palmieri. Quest’ultimo, centrato in pieno, cade all’indietro come un albero abbattuto. Nel fuggi fuggi generale nessuno si accorge del sicario che, coperto dall’oscurità, si allontana come un fantasma.

Il teorema d’accusa contro Masala

Le indagini si concentrano fin da subito su Masala. Era lui che in quel momento discuteva con la vittima e, dato che nessuno ha visto altri uomini sparare, allora non può che essere stato lui a farlo. È su questo teorema che gli investigatori costruiscono le accuse, rinforzate dalla testimonianza di un amico comune della vittima e dell’indagato, presente anche lui in piazza Kennedy al momento del delitto, che alla polizia riferisce che quel giorno Masala aveva una pistola. Poche ore dopo, si rimangerà tutto in preda ai rimorsi, spiegherà di essere stato minacciato e costretto a raccontare quella bugia, ma ciò non servirà a scagionare l’amico. La sua ritrattazione, infatti, viene ritenuta semplicemente «neutra». Non c’è un movente e l’arma non è stata ritrovata, ma per Masala si spalancano le porte del processo.

La condanna ingiusta e le speranze di revisione

Condannato in primo grado a 14 anni, viene poi assolto in Appello. La sentenza però è annullata dalla Cassazione che ordina di celebrare nuovamente il processo di secondo grado. Il verdetto, stavolta, non si ribalta più. Nel frattempo, il giovane continua a proclamarsi innocente. Ne sono convinti anche i suoi legali, Orlando Mazzotta e Riccardo Adamo, con quest’ultimo che, negli anni a venire, continuerà a inseguire la verità fino al suo ultimo respiro, purtroppo senza riuscirci. Il testimone è passato poi a sua figlia Alessandra Adamo che, insieme a Maria Celeste Parisella, segue oggi la vicenda di Francesco Masala. Le dichiarazioni della Palmieri sono state rese note nella loro interezza solo di recente perché inserite negli atti dell’inchiesta “Recovery”. Ai magistrati della Dda, però, erano note già a partire dal 2019 e proprio a quella data risale la nuova richiesta di revisione del processo Masala partita proprio dagli uffici della Procura antimafia di Catanzaro e rivolta al Tribunale di Salerno. Allo stato attuale, non sappiamo a che punto sia la pratica.