Della presunta tentata estorsione mafiosa ai danni di una società di Montalto Uffugo conosciamo ciò che è presente nell’ordinanza di custodia cautelare di “Athena“, ma la vicenda delittuosa non si è esaurita con il posizionamento della bottiglietta incendiaria davanti alla sede. La ‘ndrangheta cosentina e cassanese infatti è andata oltre come racconta il collaboratore di giustizia Ivan Barone, colui il quale qualche giorno dopo l’esecuzione dell’ordinanza di “Reset” decise di parlare con gli agenti della Questura di Cosenza al fine di “saltare il fosso” e aiutare la Dda di Catanzaro a ricostruire le dinamiche criminali della malavita cosentina.

Se nella prima parte del racconto, il pentito di via Popilia si era limitato a dire di aver avuto un “compagno di viaggio” vicino a Michele Di Puppo, nella seconda parte ha illustrato le ulteriori condotte che sarebbero state perpetrate dagli “zingari” e dagli italiani ai danni dell’azienda che lavora nel campo degli autovelox in tutta la Calabria.

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«Mi ricordo che dopo l’intimidazione della bottiglia, mi recai con la bici elettrica di Gianluca Maestri presso una cabina telefonica di viale Cosmai», situata di fronte un bar, «dove effettuai una telefonata minatoria alla stessa vittima, perché avevo saputo da Maestri che “non si rivolgeva”, con ciò intendendo il fatto che non cercava contatti nella criminalità organizzata per pagare il prezzo dell’estorsione». Il pentito ha riferito anche che il numero di cellulare dell’imprenditore glielo avrebbe fornito Gianluca Maestri «che a sua volta lo aveva avuto» dal soggetto vicino a Michele Di Puppo. Barone ha spiegato di non ricordarsi le parole esatte «ma ribadisco che si trattava di frasi di minaccia che contenevano un invito a rivolgersi alla criminalità organizzata per pagare».

Caso chiuso? Neanche per sogno. «Dopo un circa un mese, visto che la vittima ancora non si “rivolgeva”, ci recammo io» e l’uomo di Rende legato al presunto “alter ego” di Francesco Patitucci, «presso l’abitazione della stessa vittima», dove la ‘ndrangheta avrebbe deciso di piazzare «una testa di maiale davanti al cancello di una grande villa». Nelle intenzioni Barone e l’altro soggetto avrebbero voluto esplodere anche alcuni colpi di pistola alle auto presenti all’interno della villa, «ma poi, visto che la traiettoria non lo consentiva, ci determinammo a posizionare la testa di maiale». E ancora: «Preciso che ci recammo sul posto con la macchina” dell’uomo rendese “e che ci camuffammo con cappelli, sciarpe e mascherine per non essere riconosciuti».

Le azioni intimidatorie proseguirono nelle settimane successive, ma il pentito ha anche ammesso che in un caso avrebbero scelto una macchina da colpire che in realtà non sarebbe stata nella disponibilità della persona offesa. E ha concluso così: «Non so se alla fine le vittime hanno pagato o no».