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La Dda di Catanzaro, dopo la fine del giudicato cautelare di Denny Romano, consolida nei riguardi dell’imputato cosentino di “Reset“, l’accusa di far parte in maniera “trasversale” della ‘ndrangheta di Cosenza. Le speranze di ottenere una sentenza positiva sono venute meno lo scorso 30 novembre quando la seconda sezione penale della Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dalla difesa.
Il percorso cautelare
In prima istanza, però, gli ermellini avevano accolto il reclamo difensivo annullando con rinvio l’ordinanza di conferma della misura cautelare del Riesame di Catanzaro, il quale aveva ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza per Denny Romano, su cui si erano espressi diversi collaboratori di giustizia. Le dichiarazioni dei pentiti infatti erano state contestate nella loro veridicità e attendibilità dai difensori Quintieri e Cristiani, i quali sostenevano che i racconti erano illogici e contraddittori rispetto ai riscontri investigativi.
Nel secondo giudizio cautelare, il Riesame – secondo i giudici di legittimità – hanno colmato le lacune motivazionali circa l’apporto criminale di Denny Romano nella presunta confederazione mafiosa cosentina. Una sorta di “riabilitazione” per i tre pentiti – Celestino Abbruzzese, Giuseppe Zaffonte e Vincenzo De Rose – che nella prima fase non sarebbero riusciti, secondo la difesa, a inquadrare il ruolo dell’imputato nel contesto associativo.
Denny Romano in carcere, cosa scrive la Cassazione
Secondo i giudici che compongono la seconda sezione penale della Cassazione, «l’ordinanza emessa in sede di rinvio, ha tenuto conto dei principi richiamati dalla sentenza rescindente e ha rimediato alle riscontrate lacune motivazionali, fornendo un’esaustiva analisi delle ragioni della ritenuta Corte di Cassazione – copia non ufficiale attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboratori di giustizia, indicati in Celestino Abbruzzese, Giuseppe Zaffonte e Vincenzo De Rose, rispetto ai quali – e per ciascuno di essi – sono stati forniti indici adeguati di valutazione».
«Con riferimento all’Abbruzzese si sono esaminati in termini critici – e non già, come sostenuto dalla difesa, meramente assertivi – gli esiti della collaborazione, estremamente proficua, fornita in altro procedimento di criminalità organizzata, nell’ambito del quale era stata già vagliata positivamente la sua attendibilità, nella fase cautelare. Si è specificato che costui si era rivelato portatore di un patrimonio conoscitivo assolutamente qualificato, appartenendo ad un clan, quello degli zingari cosentini, deputato alla gestione dello spaccio di eroina» evidenzia la Cassazione.
La svolta investigativa
«Il narrato del collaboratore, inoltre, è stato in più occasioni riscontrato da quello della moglie che lo aveva seguito nel percorso collaborativo; si è sottolineato come costui abbia fornito informazioni preziose su svariati crimini commessi dalla sua famiglia, compresi omicidi ed estorsioni, per soffermarsi poi sulla droga, con una collaborazione iniziata alla fine del 2018 che permise di segnare un punto di svolta nella comprensione investigativa del Sistema Cosenza nella sua declinazione più attuale. In tale contesto, l’ordinanza impugnata ha collocato i riferimenti del collaboratore a Romano, definito intraneo alla criminalità organizzata e vicino ai diversi gruppi che componevano la nuova realtà associativa, con menzione di specifici episodi estorsivi commissionati dai vertici dei clan, vicini al ricorrente, fornendo dettagli specifici che hanno trovato riscontro nelle investigazioni» aggiunge la Cassazione.
«Si è sottolineato altresì il carattere spontaneo delle dichiarazioni, riferibili ai primi anni di collaborazione, nel manifestato intento di fornire un effettivo ausilio agli inquirenti, nonché la precisione delle propalazioni, in ordine alla figura dl Romano nell’ambito del sodalizio, autoaccusandosi senza mai accennare reticenze in merito alle sue responsabilità, in un momento storico in cui il quadro probatorio a suo carico era scarno o addirittura inesistente» spiegano gli ermellini.
Il contributo di Zaffonte
«Uguali considerazioni – sottolinea la Cassazione – sono state svolte con riferimento allo Zaffonte, per la sua posizione privilegiata, derivante dalla precedente militanza criminale, per la vicinanza ai capi e per la dettagliata rappresentazione del nuovo assetto criminale; dichiarazioni riscontrate da De Rose, la cui attendibilità risulta essere stata già valorizzata positivamente in altro procedimento: entrambi concordi nell’attribuire a Romano, insignito in carcere del battesimo, della prima e della seconda dote, un ruolo attivo all’interno dei clan (spaccio di sostanze stupefacenti e estorsioni)».
Le turbolenze interne nel gruppo degli italiani
«La motivazione del provvedimento impugnato – chiariscono gli ermellini – pone in evidenza come le varie dichiarazioni si completino, su una base comune (l’Abbruzzese fornisce dati inediti a carico della famiglia e dei rapporti con gli altri gruppi, individuando il ricorrente quale partecipe per conto di essi; lo Zaffonte fotografa le turbolenze interne determinate dalla doppia reggenza del gruppo degli italiani, dando atto della formale affiliazione del Romano e del suo ruolo di spacciatore autorizzato all’interno del sistema). Sotto il profilo della credibilità oggettiva intrinseca dei propalanti, si fa menzione dei verbali delle relative dichiarazioni per rilevare che esse presentano più che sufficienti caratteristiche di precisione, coerenza, costanza e, soprattutto, spontaneità
Caso Denny Romano, le conclusioni
«In definitiva, la concordanza di tali dichiarazioni, sulla cui attendibilità il Tribunale non dubita, costituisce nel giudizio cautelare solida piattaforma indiziaria in ordine alla ritenuta partecipazione del ricorrente all’associazione confederata, ricondotta non solo alla dote – secondo la prospettiva difensiva – ma anche alle concrete attività svolte, pienamente inserite nei fini programmatici dell’organizzazione criminale, finalizzate non solo all’attività di spaccio su larga scala, sotto il sistema autorizzatorio cosentino, ma anche alla commissione di reati in materia di armi, estorsioni e danneggiamenti a fini estorsivi, per la gestione o comunque il controllo di attività economiche nei diversi ambiti imprenditoriali della zona» conclude la Cassazione.