Tutti gli articoli di Blog
PHOTO
Sono passati settantacinque anni dalla data con la quale convenzionalmente si indica la Liberazione d’Italia dal nazifascismo. In realtà, la resistenza si protrasse ancora fino ai primissimi di maggio; tuttavia, il 25 Aprile il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia aveva proclamato la sollevazione generale: la “fine dell’inizio”, il momento culminante di una strategia progressiva.
La lotta per la Liberazione, per certi versi, inizia ovviamente molto prima e sorge in quell’opposizione politica che sin dalla marcia su Roma intuisce la violenza del regime e di molti suoi autopromossi miliziani locali. Fu anzi forse quello il vero seme di libertà che per oltre vent’anni riuscì da solo a sopravvivere e a propagarsi. Una storia che parte dall’uccisione del sindacalista rodigino Matteotti, passa attraverso il confinamento di laici e federalisti come Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni; tocca l’arruolamento volontario degli anarchici italiani nella guerra civile spagnola; vivifica libertà e cultura nella scelta di diciotto insigni professori, rinomati nel mondo, che rifiutarono il giuramento fascista del 1931.
Tra essi, si possono ricordare Francesco Ruffini, tra i padri del diritto ecclesiastico italiano, peraltro storico eccelso e cultore delle dottrine politiche, nonché il teologo ed esperto di storia del cristianesimo Ernesto Buonaiuti. La Chiesa lo aveva scomunicato per la sua adesione al modernismo, pochi decenni dopo lo Stato, riconciliatosi con la Santa Sede attraverso i Patti del Laterano del 1929, fortemente voluti da Mussolini e Pio XI, completò l’opera di marginalizzazione.
La lotta di Liberazione non fu solo il sangue dei vinti, come tuttavia alcuni hanno scritto, partendo dall’idea di colmare un esistente vuoto storiografico, ma poi rendendolo un pasticcio di scarsa leggibilità. Ci furono localmente esperienze di intensa e partecipata condivisione emotiva, che danno l’idea di un fermento ideale comunque sincero: la corrispondenza tra gli azionisti e alcuni valdesi in Piemonte, le strutture organizzative del partito comunista esistenti in centro Italia, i momenti di simpatia e seguito ottenuti dall’esercito anglo-americano a Sud (nonostante altri, e meno simpatici, “incontri” dei servizi americani con forme e forze della criminalità organizzata). Un Sud nel quale avanzavano lotte e speranze contadine.
Dove si è perso invece il senso della Resistenza e della Liberazione? Si è iniziato subito, o quasi. Facendo troppe volte del 25 Aprile una passerella obbligata e poco altro. Molti dei fascisti istituzionali del ’42 si erano trasformati in antifascisti, altrettanto istituzionali, nel ’52. Il cd. Stato-apparato (i gangli della sua amministrazione gerarchica) era stato modificato solo lievemente: una sostanziale continuità era osservabile nelle prefetture, in alcuni enti pubblici, persino negli atenei. E stranamente proprio in nome di questa continuità, numerosi si dichiararono antifascisti, avversari del fascismo, “cerimonieri” della liberazione senza nemmeno averla fatta, praticata, vissuta, partecipata, appoggiata.
Anziché una riflessione di massa sulle libertà collettive, il 25 Aprile era per troppi divenuto uno strumento di concentrazione e contenimento di quelle stesse libertà. Partiti che ancora dopo l’8 Settembre del 1943 (l’armistizio col quale l’Italia si arrendeva agli alleati) si auguravano una prosecuzione del regime con un mero cambio di personale politico occuparono in meno di quindici anni i comizi, i congressi e le conferenze per commemorare la Liberazione. I presupposti perfetti per trasformare il ricordo in rito, la liberazione collettiva nel nome dello Stato sociale di diritto in una circostanza di proclami che non leggevano, né volevano leggere, le cause di ogni scadimento di vita in comune, di ogni autoritarismo.
Come si può trasformare la notte della repubblica in una riscoperta reale del significato della Liberazione? Cosa è andato storto se a oltre ottant’anni dalle leggi razziali (lo strumento giuridico adottato al tempo) le varie forme di minoranze etniche, sociali, economiche, rischiano trattamenti aggiornati all’attualità e tuttavia non meno escludenti e gravi? Cosa è cambiato se dallo Stato si chiede più assistenza particolaristica ed egoistica – molto peggio di quanto avesse fatto il corporativismo – e non un più trasparente, libero, responsabile, ruolo di gestione e intervento nell’economia?
Ci si conferma quanto mai attuale la lettura di Brecht. La tentazione dell’autorità è sempre feconda. Di più, è sempre gravida. Coglie i popoli nei loro timori, nelle loro paure, nei loro dolori. Promette soluzioni agevoli infilando catene. E se un nazismo o un fascismo sono oggi in agguato, il lato più inquietante forse non è in una rivisitazione cieca dei simboli, ma nel recupero di quegli stessi strumenti di ingiustizia. Se sapremo tornare a smontare esaustivamente queste leve di iniquità, la Liberazione potrà salvarsi dall’essere travolta. Altrimenti ogni anno sempre più stancamente manderemo a memoria il ritornello della festa “divisiva”, concepita per il piacere di chi la mattina del 25 ha un comunicato da stendere, un distinguo da fare o un discorso con cui farsi applaudire. Prima di tornare a fare quotidianamente a pezzi ogni minimo principio di lealtà, onestà, libertà.