Lunedì 12 Maggio mi sono recato dal mio medico di base per farmi prescrivere alcune ricette. Durante il colloquio ho cominciato a manifestare un evidente stato confusionario con difficolta ad esprimere le mie parole. Durante la visita — se così si può chiamare — ho iniziato ad avere serie difficoltà nello spiegare le mie richieste, un sintomo che chiunque, con un minimo di coscienza professionale, avrebbe dovuto riconoscere come un campanello d’allarme grave e urgente.
E invece? Sono stato ignorato, liquidato in pochi minuti, senza che mi venisse nemmeno misurata la pressione o prestata la minima attenzione clinica. Nessuna visita. Nessun ascolto. Nessun senso di responsabilità.

Pochi minuti dopo, solo grazie alla tempestività di mia moglie che fortunatamente quella mattina era lì con me, e che subito ha intuito e si è resa conto della gravità di quegli attimi, non ha esitato a portarmi in ospedale. Arrivati in pronto soccorso, grazie all’accortezza e grande professionalità delle dottoresse di turno quella mattina di nome Almeida e Ramirez (così mi è stato riferito ma andrò personalmente a ringraziarle), che si sono immediatamente rese conto che la mia condizione richiedeva un tempestivo trasferimento d’urgenza in codice rosso, con elisoccorso, presso l’ospedale di Cosenza , cosa che è avvenuta in brevissime ore, mi hanno salvato la vita.

Rendo pubblica questa vicenda non per rabbia, ma per senso di giustizia. Perché se mi fossi fidato di quel medico e fossi tornato a casa, oggi forse non starei nemmeno scrivendo questo post. Una simile superficialità non è un errore: è una colpa. È negligenza medica. È irresponsabilità. È un fallimento totale del dovere di cura. E chi sbaglia in questo modo, in una professione dove ogni scelta può determinare la vita o la morte, non può continuare a esercitare nel silenzio e nell’impunità.
Io non dimentico. E non taccio. Perché il prossimo, al posto mio, potrebbe non essere così fortunato.