Spiare il telefono del partner, accedere alle sue chat private su WhatsApp, magari per gelosia, sospetti di infedeltà o persino per usarle in un processo di separazione, può costare caro. Molto caro. Fino a 10 anni di carcere, secondo una sentenza della Corte di Cassazione, che definisce senza mezzi termini come reato penale l’accesso non autorizzato ai contenuti dell’app di messaggistica. Anche quando si tratta di una relazione personale, anche quando si è in fase di separazione.

È questa la decisione contenuta nella sentenza Cass. Pen., sez. V, sentenza n. 22749/2024, depositata nei giorni scorsi, con la quale la Suprema Corte ha respinto il ricorso di un uomo condannato in secondo grado per accesso abusivo a sistema informatico. L’uomo aveva estratto messaggi WhatsApp e registri chiamate dal cellulare della ex moglie, per poi utilizzarli come prova in giudizio durante la separazione.

Il caso: il marito spia la moglie e usa le chat in tribunale

L’uomo era già stato denunciato in precedenza per comportamenti ossessivi: la ex compagna aveva raccontato di essere stata perseguitata con controlli continui al suo telefono. Poi, nel corso della causa civile per la separazione, ha scoperto che l’uomo aveva presentato screenshot di conversazioni private e log di chiamate, sostenendo di averli “trovati” su un cellulare che lei aveva usato per lavoro e che non trovava più.

Ma tra quei dati ce n’erano anche altri provenienti da un telefono che la donna utilizzava ancora, protetto da password di sicurezza. Ed è questo l’elemento chiave che ha portato i giudici a confermare la condanna.

WhatsApp è un sistema informatico: e la legge punisce chi lo viola

Per la Cassazione, WhatsApp è un vero e proprio “sistema informatico”, come lo sono un PC, un server o un software professionale. L’app è infatti una piattaforma digitale complessa, che gestisce dati, messaggi, chiamate, immagini, e quindi è tutelata dal Codice penale all’art. 615-ter, che punisce l’accesso abusivo a un sistema informatico o telematico.

L’uomo, secondo i giudici, ha “arbitrariamente invaso la sfera di riservatezza della moglie”, violando uno spazio digitale che era protetto da credenziali. Non solo: ha anche conservato ed esibito i contenuti in giudizio, aggravando la posizione penale.

Anche col consenso, l’accesso può diventare reato

Uno degli aspetti più importanti della sentenza riguarda il concetto di consenso. Anche se la moglie avesse in passato condiviso la password, ciò non autorizzava l’uomo a entrare liberamente nel dispositivo.

La Cassazione sottolinea infatti che: “L’eventuale consenso all’accesso deve ritenersi limitato nel tempo e negli scopi. Una volta esaurita la legittimazione all’uso, qualsiasi ulteriore accesso è penalmente rilevante.”

Quindi conservare la password per accedere in un momento successivo, oppure usarla per consultare dati non pertinenti, equivale comunque a commettere reato.

Le pene previste dal Codice penale

L’articolo 615-ter del Codice penale prevede per l’accesso abusivo a un sistema informatico una pena che può arrivare a fino a 3 anni di reclusione, ma che può salire fino a 5 anni se l’accesso riguarda sistemi protetti da misure di sicurezza, e fino a 10 anni in presenza di aggravanti (come ad esempio se commesso da un pubblico ufficiale o per trarre un profitto).

Nel caso in esame, la Cassazione ha confermato la condanna in Appello, ritenendo provato che l’imputato ha superato le barriere di sicurezza digitali senza averne più alcun diritto o autorizzazione.