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Truffaut diceva: “Tutti fanno il loro lavoro più quello del critico cinematografico.” Un po’ come accade per il calcio, quando mezza Italia diventa coach, o quando qualche crisi internazionale trasforma placide genti in masse di esperti di strategie belliche e piattaforme petrolifere. Mario Sesti cita il regista francese con un sorriso.
Ospite all’Unical, il critico e sceneggiatore ha presentato la sua ultima fatica letteraria dal titolo golosissimo: “Le 250 serie tv da non perdere”, con prefazione di Carlo Verdone. L’incontro, organizzato da Mattia Scaramuzzo, direttore artistico di CineIncontriamoci, è stato animato dagli interventi dei docenti Unical Carlo Fanelli e Giusy Gallo.
«Il cinema per decenni è stato il paradiso dei poveri – ha detto Sesti alla platea di studenti che hanno affollato l’aula muniti di tablet e notebook – di chi non poteva permettersi il ristorante o le vacanze e ogni tanto spendeva quella moneta per vedere un film. Oggi è tutto cambiato: con 12 euro al mese puoi vedere tutto quello che c’è su Netflix e neanche riesci a guardare tutto quello che c’è in menù. Siamo bloccati dall’eccesso di desiderio».
Il libro, edito da Fazi Editori, è una guida preziosa per orientarsi nel mare magnum dell’offerta televisiva streaming, che ogni giorno si arricchisce di nuove produzioni che vengono distribuite a gettito continuo: gialli, thriller, horror, commedie, distopici, il piatto è talmente ricco che solo per scegliere cosa vedere passano delle ore.
«La mia serie preferita? Domanda insidiosa a cui non mi sottraggo: è The Wire, opera prodigiosa e sfaccettata. Scritta meravigliosamente e con le musiche dell’archivista di Bruce Springsteen. Posso dire di essere in buona compagnia perché è anche la serie preferita di Obama e Stephen King». Ma sono diverse le serie che resteranno nella storia delle tv: dalle “fuori campionato” come “Twin Peaks”, ai capolavori come “Better call saul” e “Trono di Spade”, passando dalla madre di tutte le serie che è “Lost”.
Sesti ha anche raccontato, allargando il discorso alla Settima Arte “classica”, di quando scoprì con grande emozione il finale alternativo di 8 e 1/2 di Federico Fellini, che poi finì nel suo documentario “L’ultima sequenza”, presentato a Cannes nel 2003.
«Alcune serie sono cinema nel senso puro del termine – dice – nel senso che c’è una ricercatezza nella scrittura che non ha nulla da invidiare a quella della Settima Arte. Io penso che il fenomeno seriale abbia due riferimenti imprescindibili: I Soprano e Breaking Bad». Opere che hanno un po’ segnato quel “salto di specie” che ha trasformato i rassicuranti telefilm degli anni ‘70, ‘80 e ‘90 in opere fuori dalle righe e, in alcuni casi, sconvolgenti.
«Le serie TV sono diventate il formato più popolare del linguaggio audiovisivo. Non c’è nulla che somigli di più a un romanzo. La visione ci accompagna per un tempo prolungato, possiamo iniziare e interromperne la fruizione quando vogliamo, la durata può corrispondere a un numero sterminato di ore. Cosa fa di queste serie la cosa più vicina alla letteratura? La capacità di produrre personaggi poderosi e a tutto tondo come quelli di un romanzo ottocentesco». E l’Italia, chiediamo, riesce a stare al passo con un’evoluzione tecnica, cinematografica e linguistica propria delle grandi produzioni estere, soprattutto americane? «Ci sono dei prodotti come Tutto chiede salvezza e The Bad Guy che rappresentano la risposta a questa domanda, la prova che anche le produzioni italiane riescono ad avere scritture convincenti e “incandescenza” nella messa in scena».