Cosenza-New York, andata con qualche ritorno. Sul filo della musica. «Quando non sai cos’è, allora è jazz» fa dire Alessandro Baricco a uno dei suoi personaggi di “Novecento”. Enrico Granafei però lo sa bene cos’è il jazz e cosa vuol dire partire portandosi poca nostalgia e radici che non pesano, ma alleggeriscono l’animo. Musicista e anche imprenditore, aprì nel New Jersey il Trumpets club – leggendario night di Montclair, a 20 chilometri dalle luci di Manhattan – dove non mancavano nella lista degli antipasti anche piatti tipici cosentini (broccoli e rape su tutti).

Armonicista, chitarrista, autore. Gli anni hanno musicato il suo accento che resta un po’ calabro, un po’ da that’s american boy. Il dialetto colora anche le sue canzoni condite di jazz. Niente tarantelle o tamburelli (good riddance!), ma arpeggi, armonie. Folgorato sulla via del jazz grazie ai dischi di Toots Thielemans, leggendario armonicista belga (sua è la performance nel film “Un uomo da marciapiede”) poi diventato suo maestro alla prestigiosa Manhattan School of Music, prima di accarezzare con gli occhi la Statua della Libertà, firma un contratto con Rete 4.

Per lui un anno nell’orchestra scelta dal maestro Pippo Caruso, detto D’Artagnan, per la trasmissione di Baudo “Un milione al secondo”. Siamo nel 1983, era televisiva dell’abbandono, temporaneo, di Super Pippo da Mamma Rai, quando come armonicista nelle liste dei direttori d’orchestra c’era un solo nome da chiamare: il pioniere Bruno De Filippi. E su quel territorio vergine arriva Granafei

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