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La Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso presentato da Adolfo D’Ambrosio, storico boss della ’ndrangheta di Cosenza, coinvolto nel procedimento penale “Recovery”. La sentenza ha accolto il ricorso avanzato dalla difesa, rappresentata dall’avvocato Cesare Badolato, focalizzandosi sul tema della “contestazione a catena“, il principio della retrodatazione dei termini di custodia cautelare.
Recovery, le accuse contro Adolfo D’Ambrosio
Il Tribunale del Riesame di Catanzaro, con ordinanza del 4 giugno 2024, aveva confermato la misura cautelare in carcere a carico di D’Ambrosio, accusato di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti ai sensi dell’art. 74 T.U. Stup. La difesa aveva sostenuto che la misura fosse illegittima poiché basata sulle stesse intercettazioni già utilizzate nel procedimento “Reset”, che aveva portato, nel 2022, all’emissione di un’altra misura cautelare per associazione mafiosa ex art. 416-bis c.p.
Motivi del ricorso
Il ricorso si fondava su due punti principali: violazione di legge in merito alla retrodatazione dei termini di custodia cautelare, poiché le intercettazioni utilizzate erano le medesime del procedimento “Reset” e non sussistevano nuovi elementi probatori rilevanti; carenza motivazionale nella valutazione della gravità indiziaria relativa all’associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.
Motivazioni della sentenza
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il primo motivo di ricorso, dichiarando invece inammissibile il secondo. Riguardo alla contestazione a catena e retrodatazione, gli ermellini hanno scritto: «In tema di “contestazione a catena”, quando nei confronti di un imputato sono emesse in procedimenti diversi più ordinanze cautelari per fatti diversi in relazione ai quali esiste una connessione qualificata, la retrodatazione prevista dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. opera per i fatti desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stata emessa la prima ordinanza».
La Corte ha evidenziato come, nel caso di specie, la difesa avesse dimostrato che le intercettazioni poste a fondamento della nuova ordinanza erano già state valorizzate nella prima ordinanza del procedimento “Reset”. «A fronte di tali puntuali eccezioni difensive, il mero riferimento alla datazione delle informative di polizia giudiziaria successiva alla emissione della prima ordinanza non assume rilievo in ragione della evidenziata identità delle intercettazioni poste a fondamento della nuova ordinanza con quelle acquisite e apprezzate ai fini dell’emissione della prima ordinanza per il reato di associazione mafiosa». Inoltre, è stato sottolineato che: «È necessario che il Tribunale dia conto delle ragioni per le quali la rielaborazione degli stessi elementi probatori già acquisiti con l’integrazione delle nuove e sopravvenute emergenze probatorie abbia assunto la necessaria valenza di gravità indiziaria».
Gravità indiziaria e nuove informative
La Corte ha rilevato che il Tribunale del Riesame non aveva fornito adeguate spiegazioni circa il carattere innovativo delle nuove informative rispetto a quelle già utilizzate nel primo procedimento. In particolare: «Il generico riferimento alla sopravvenienza temporale di nuovi elementi di prova rispetto alla prima ordinanza non assume rilevanza se non accompagnato da una valutazione sostanziale della loro effettiva rilevanza probatoria in rapporto al materiale probatorio già disponibile al momento della prima ordinanza».
La Corte ha annullato l’ordinanza del Tribunale del Riesame, ordinando un riesame in merito alla retrodatazione dei termini di custodia cautelare. Ha inoltre specificato che: «È indispensabile che, sin dall’epoca dell’emissione della prima ordinanza o della data del rinvio a giudizio, sussista un quadro indiziario legittimante l’adozione delle misure cautelari successivamente applicate allo stesso indagato».
La Cassazione ha accolto il ricorso della difesa di D’Ambrosio, riconoscendo la fondatezza delle eccezioni relative alla retrodatazione e ordinando un nuovo esame al Tribunale di Catanzaro.