Roberto Porcaro non è più un collaboratore di giustizia, ma i verbali con le sue dichiarazioni continuano a “ballare” tra gli atti delle inchieste antimafia attualmente in corso. L’ultimo giro, in tal senso, si registra ad “Affari di famiglia”, l’indagine contro il presunto clan Calabria-Tundis che la Dda vuole protagonista oscuro di gesta criminali tra San Lucido e Paola. Nei vari documenti che formano il fascicolo giudiziario figurano anche gli interrogatori affrontati dal boss cosentino a giugno del 2023, poco prima che lo stesso facesse marcia indietro, ritrattando tutte le precedenti confessioni.

Non a caso, anche ad “Affari di famiglia”, così come a “Reset” ed “Athena”, ai verbali da dichiarante è associato un manoscritto a sua firma con cui smentisce sé stesso, affermando di essersi inventato ogni cosa. Morale della favola: quei documenti potrebbero tornare attuali in un eventuale processo in abbreviato, previa valutazione del giudice sull’attendibilità dei contenuti. Discorso differente per il processo ordinario: in quel caso, infatti, un Porcaro in veste inedita di testimone sarebbe chiamato a confermare o smentire quelle dichiarazioni messe nero su bianco a suo tempo. Nella seconda eventualità, quella più scontata, i verbali non potranno essere utilizzati in alcun modo per sostenere l’accusa nei confronti degli imputati.

Riguardo agli eventi e alle dinamiche criminali che riguardano il Tirreno cosentino, Porcaro ha in qualche modo delineato l’origine del gruppo che si vuole guidato da Pietro Calabria. A suo dire, infatti, il segno del comando gli sarebbe stato conferito appena ventenne da Francesco Patitucci. Corre l’anno 2008 e gli assetti della malavita cosentina sono nuovamente in subbuglio a causa degli arresti dell’operazione “Missing”. A finire in carcere, tra gli altri, è il boss storico di San Lucido, Romeo Calvano, circostanza che impone la scelta di un sostituto ai big rimasti in libertà. Fra questi c’è Francesco Patitucci che, scarcerato dopo una breve carcerazione si mette in cerca del successore di Calvano.

Porcaro non è testimone diretto di quegli eventi, ma all’epoca sosteneva di aver appreso tanti particolari dalla viva voce dello stesso Patitucci e di altri esponenti del suo clan. Pertanto, riferiva ai magistrati che su due potenziali candidati che si erano proposti per ricoprire quel ruolo, alla fine la spuntò proprio Calabria che, seppur giovanissimo, era considerato come una persona «responsabile e affidabile, che conosceva bene luoghi e situazioni». Fino ad allora, sostiene l’ex pentito, «non aveva commesso alcuna azione delittuosa che giustificasse la sua nomina a reggente, né proveniva da una famiglia tradizionalmente mafiosa. Il padre lavora con il bestiame e non gli ho mai visto compiere azioni criminali, la madre la conosco solo di vista, ma so che è una gran lavoratrice».

Nell’inchiesta, oltre a Pietro è coinvolto anche suo fratello Giuseppe, detto Pino, l’unico secondo Porcaro con precedenti di polizia. In particolare, un arresto avvenuto nel 2008 a seguito delle dichiarazioni del pentito Carmine Cristini da cui «si desumeva che anche lui fosse uomo vicino a Romeo Calvano. So che poi Pino è stato assolto da ogni accusa». Rispetto al fratello, Pietro è da lui rappresentato come uomo «più carismatico e di polso, tant’è che se Pino non fosse stato coinvolto in questo contesto mafioso, forse sarebbe diventato un gran lavoratore».

Nei suoi ricordi, prima della ritrattazione totale, trova posto anche un tentativo di modifica di quegli equilibri criminali operato nel 2013 da Daniele Lamanna che, in quel periodo, avrebbe tentato di piazzare al vertice della cellula sanlucidana un’altra persona da affiancare a Calabria. Il progetto della diarchia, però, fallì per l’opposizione dei cosentini. «Non ricordo tramite chi, facemmo intervenire Rinaldo Gentile. A parte ciò, dal 2009 al 2019, anni dei quali ho avuto diretta percezione, nessuno ha più cercato di alterare gli equilibri criminali sulla costa».

Per il resto, Porcaro dà indicazioni su una serie di reati fine ascrivibili ai Calabria quali estorsioni, traffico di droga, usura e altro ancora, ma dà l’impressione di ripetere lo stesso giochetto che gli contestano i magistrati in “Reset: quello di confermare accuse già blindate da altre evidenze investigative, senza aggiungere nulla di nuovo. Alcune precisazioni riguardano la sua posizione processuale. Durante le indagini, le telecamere piazzate davanti all’abitazione di Calabria hanno ripreso diverse sue visite a cui, secondo gli inquirenti, corrispondono le forniture di altrettanti carichi di stupefacenti al padrone di casa. In una circostanza, però, il diretto interessato nega che la busta consegnata nelle mani di Calabria e immortalata in un video dei carabinieri fosse cocaina, bensì «un disturbatore di frequenze». La droga, poi, lui ammetteva di averla trasportata sì, mai però in automobile, ma solo in sella al suo ormai celebre T-Max, mezzo che gli garantiva «maggiore agilità e possibilità di fuga in caso di controlli e posti di blocco».