La Corte d’Appello di Catanzaro ha respinto i ricorsi presentati dagli imputati Adamo Attento, Claudio Alushi e Franco Abbruzzese, confermando le condanne di primo grado per estorsione aggravata dal metodo mafioso, detenzione di armi e droga e associazione a delinquere di stampo mafioso.

L’appello, secondo i giudici di secondo grado, si è basato su motivazioni “infondate” e su questioni già affrontate e risolte in primo grado. Nessuno degli elementi addotti dalle difese è risultato idoneo a scalfire il quadro probatorio ricostruito dal Tribunale di Cosenza.

Il caso Attento

Al centro della vicenda giudiziaria c’è la figura di Adamo Attento, accusato di aver fatto da intermediario tra il testimone di giustizia Antonio Tenuta, vittima delle richieste estorsive, e i fratelli Marco, Luigi e Nicola Abbruzzese, appartenenti al gruppo “Banana”. Secondo la difesa, Attento avrebbe agito per aiutare la vittima e non per favorire i membri della cosca.

Attraverso intercettazioni, testimonianze e video registrati dalla vittima, i giudici hanno invece accertato che Attento non solo avrebbe fatto da tramite, ma avrebbe attivamente partecipato alla riscossione delle somme estorte, sollecitando il pagamento e rassicurando i fratelli Abbruzzese sull’esito delle richieste, come emerso in un incontro del 18 settembre 2019, interamente registrato da Tenuta.

La sua condotta, secondo la Corte d’Appello di Catanzaro, è stata fondamentale per superare la resistenza della vittima e portare a compimento l’estorsione.

Cosenza, il ruolo del clan Abbruzzese

Oltre a ribadire il ruolo centrale di Attento nella dinamica estorsiva, i giudici hanno confermato anche la sussistenza dell’aggravante prevista dall’articolo 416-bis.1 del codice penale, che punisce il “metodo mafioso”. Le minacce rivolte alla vittima – con espressioni evocative della forza intimidatrice tipica della ’ndrangheta – e il pestaggio subito nel corso dell’incontro del 18 settembre, sono stati ritenuti «oggettivamente funzionali a creare un clima di soggezione e timore».

Le altre posizioni

La Corte ha confermato anche le responsabilità penali di Claudio Alushi e Franco Abbruzzese, ritenuti componenti attivi del sodalizio criminale denominato “Banana”. I due imputati erano accusati, tra le altre cose, di aver gestito un intercapedine occulto in via Popilia, a Cosenza, all’interno del quale la Polizia di Stato aveva rinvenuto armi e sostanze stupefacenti, ben nascoste dietro un bidone blu.

Secondo quanto ricostruito in sede dibattimentale, Alushi – pur sottoposto agli arresti domiciliari – è stato più volte filmato all’ingresso dell’intercapedine, in orario diurno, mentre si intratteneva con i fratelli Abbruzzese. Le telecamere lo hanno ripreso anche mentre entrava fisicamente nel nascondiglio, elemento che – insieme alla conoscenza pregressa degli agenti di polizia – ha consentito un’identificazione certa. In almeno due occasioni, il 28 e il 30 gennaio 2018, Alushi è stato immortalato mentre accedeva all’interno del deposito.

La difesa ha provato a sostenere l’estraneità dell’imputato, adducendo la mancata prova della sua consapevolezza circa il contenuto del nascondiglio e l’assenza di autorizzazioni per giustificare una presunta evasione. Ma per i giudici si tratta di tesi inverosimili. Il suo ruolo, definito come quello di “vedetta”, sarebbe stato funzionale a garantire la sicurezza degli accessi, segnalando anche eventuali pericoli e coprire i movimenti dei sodali.

Franco Abbruzzese, dal canto suo, è stato anch’egli riconosciuto nei filmati di sorveglianza e ritenuto parte attiva della gestione del deposito. Entrava e usciva dal nascondiglio in pieno giorno, con disinvoltura, a testimonianza – secondo la Corte – di una piena consapevolezza del contenuto dell’intercapedine e della sua funzione strategica per le attività del clan.

Contesto e mafiosità

Le prove raccolte, tra cui le dichiarazioni convergenti di più collaboratori di giustizia, hanno permesso di delineare un quadro chiaro: i fratelli Abbruzzese, insieme ad Alushi e ad altri, avrebbero agito in stretta connessione con la cosca Lanzino-Patitucci, attraverso il tramite di Porcaro, figura apicale del gruppo denominato “Italiani”. Ipotesi ormai divenuta concreta sulla base delle condanne inflitte nel processo abbreviato di Reset dal giudice Fabiana Giacchetti.