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Il più celebre in Italia raffigura il Mostro di Firenze, in America invece è tristemente noto quello del suo emulo Zodiac. L’identikit è considerato oggi uno strumento investigativo desueto. Le telecamere di sorveglianza presenti in tutte le città del mondo finiscono prima o poi per immortalare il passaggio dell’autore di un qualunque crimine, rendendo così superfluo il lavoro degli artisti forensi, figure ormai in via d’estinzione o quasi. La polizia vi ricorre di rado poiché anche in questo ambito la tecnologia ha preso il sopravvento sull’immaginazione. C’è stato un tempo, però, in cui il ricorso al disegnino era principale nelle indagini, per certi versi una scelta forzata nei casi di omicidio in presenza di testimoni. A Cosenza è accaduto almeno in una circostanza, nel 1983, in occasione di un delitto consumato a Cerzeto: quello di Giuseppe Ricioppo.
All’epoca aveva cinquantotto anni e tutti si rivolgevano a lui con il don. Da giovane aveva commesso una rapina in Liguria e questo bastava a incutere timore nei suoi compaesani. In realtà “Don Pippo”, a parte l’emissione di qualche assegno al vuoto, si teneva alla larga dal crimine. Invitava i giovani ad avere rispetto per i carabinieri e si proponeva come formibabile spicciafaccende. Andava ogni giorno a Cosenza, il suo “ufficio” era il marciapiedi antistante il bar Due Palme dove riceveva i suoi clienti. Per loro sbrigava pratiche di ogni tipo, in particolare pensionistiche e sanitarie, senza disdegnare esoneri dal servizio militare. In paese appariva di rado: mai un bicchierino al bar o una partita a carte seduto ai tavolini. Nei giorni di sole si affacciava in pigiama dal balcone di casa e tutti, in processione, facevano a gara per sfilare di sotto a rendergli omaggio: “Buona domenica Don Pippo”, “Come state don Pippo?”. E “buona giornata a vussurìa”.
La sera del 10 maggio del 1983 era andato a letto presto come al solito, mentre il resto della famiglia guardava il film “Il bisbetico domato” trasmesso su Canale 5. Intorno alle 23 suona il citofono e una voce maschile chiede di lui a sua figlia: “Abita qui don Pippo”. Alla porta si presentano in due, entrambi ventenni, uno dei quali loquace e di bell’aspetto, sorridente e “dai denti bianchissimi” che dopo aver salutato il padrone di casa, si scusa con lui “per l’orario di visita inopportuno” mentre il suo accompagnatore se ne sta in silenzio e con la testa un po’ abbassata, come se non volesse farsi riconoscere. “Potete tornare a letto che dobbiamo parlare di cose da uomini” dicono a sua figlia. E prendono posto in cucina insieme a Don Pippo.
“Dodici miliardi”. La ragazza sente pronunciare queste parole a suo padre, unitamente a discorsi orientati sul più e sul meno. “Conosci quello, conosci quell’altro?”. “Sì, come no. Siamo pure mezzi parenti”. Intorno a mezzanotte, il più ombroso dei due dice: “Andiamo via”. Il giovane dai denti bianchi conviene che è arrivano il momento: “Allora don Pippo, come restiamo?”. Il vecchio faccendiere dà loro appuntamento a Cosenza, “tanto sono lì ogni giorno” e i visitatori sembrano sul punto di lasciare l’appartamento. Poi all’improvviso tornano sui loro passi e quattro spari riecheggiano nel buio della notte, con altrettante pallottole calibro 38 che pongono fine alla vita terrena di Ricioppo.
Cinque giorni dopo, la polizia convoca l’unica testimone del delitto e con l’ausilio del professor Paolo Chiasellotti, disegnatore e ritrattista di San Marco Argentano, le fa realizzare un identikit dei due assassini. In seguito, le sottoporranno in visione le foto segnaletiche di diversi pregiudicati, da Corigliano a Cetraro, passando per Cosenza, ma tutte le comparazioni si concludono con un nulla di fatto. La donna non riesce a identificare i sicari di suo padre e così le indagini finiscono per arenarsi. Ripartiranno molti anni dopo, quando Franco Pino, fresco di pentimento, racconterà la sua verità sul delitto di Cerzeto.
Ricioppo, a suo dire, era riuscito nell’impresa di coalizzare contro di lui quasi tutte le mafie della provincia (Cosenza, Cetraro, Corigliano) e persino le cosche di Cirò Marina. Il motivo? L’allora costruenda diga dell’Esaro, un affare miliardario su cui la ‘ndrangheta voleva esercitare il racket. Il coraggioso e ingenuo don Pippo si sarebbe messo in mezzo, suggerendo ai titolari dei cantieri di non cedere alle richieste estorsive, che poi “se la sarebbe vista lui”. Pensava di risolvere la cosa a modo suo, con la forza della parola, ma non aveva compreso che il suo tempo, e il tempo di quelli come lui, era ormai finito per sempre.
Nel 2006, il suo omicidio è entrato a far parte del maxiprocesso “Missing”. Pino, infatti, sosteneva di aver preso parte direttamente all’omicidio e di aver provveduto lui a recuperare i due killer alla guida di una Ritmo, nei pressi dello svincolo autostradale di Torano. Proprio lì, nelle ore successive, saranno ritrovati i rottami carbonizzati dell’auto da loro utilizzata per recarsi a Cerzeto, una Fiat 127 rubata in precedenza. L’ex boss sosteneva che i mandanti di quella esecuzione, oltre a lui, fossero Franco Muto, Santo Carelli e il defunto Nicodemo “Nick” Aloe. E che a compiere materialmente il delitto fossero stati Gianfranco Ruà e Francesco Patitucci. Alla fine del processo, però, tutti gli imputati saranno assolti a causa delle prove contro di loro ritenute insufficienti o contraddittorie. Del caso Ricioppo, oggi non resta più nulla, se non dei disegni un po’ sbiaditi. Che a guardarli oggi, quarant’anni dopo, mettono ancora i brividi.