«A Cosenza ci sono più pentiti che cristiani». Già tanti anni fa Vincenzo Curato, fuoriuscito dalle cosche sibarite, usava parole semplici per dire una verità. Non a caso, sono almeno centocinquanta gli uomini d’ambiente che, dal 1993 in poi, hanno saltato il fosso, scegliendo di collaborare con la giustizia. E a questa fitta schiera si è aggiunto ieri Danilo Turboli, l’ultimo della compagnia. Almeno per ora.

Tutti loro vantano un antenato illustre in Antonio De Rose, il primo transfuga della malavita bruzia che, in tempi non sospetti (era il 1986), si presentò dai carabinieri deciso a vuotare il sacco. Il risultato non fu dei migliori, ma ormai era solo questione di tempo.

Nell’ultimo trentennio, infatti, dalla città capoluogo allo Jonio, dall’entroterra e fino al Tirreno, un po’ tutti i gruppi della provincia hanno dovuto fare i conti con il bubbone del pentitismo. Fin qui, solo il clan di Franco Muto è risultato immune ai “tradimenti”, ma è l’eccezione che conferma una regola a cui persino la malavita di etnia rom, solitamente impermeabile a fenomeni di questo tipo, ha dovuto piegarsi. La diserzione del capoclan Francesco Bevilacqua, nel 2001, sembrava un temporale estivo, ma Franco Bruzzese, Celestino Abbruzzese e altri, nel corso degli anni, hanno dimostrato che può piovere per sempre.

L’ultima inchiesta antimafia a Cosenza, prima di quella attuale, risale al 2014 ed è la cosiddetta “Nuova famiglia”. Su quarantasette persone coinvolte in quel processo se ne pentirono cinque, in pratica il dieci per cento. Avvicinarsi in proporzione a questi numeri, ora che gli indagati sono duecentocinquanta (centonovanta quelli colpiti da misure cautelari), è quantomeno improbabile, ma è chiaro che anche stavolta la scelta operata da Turboli non rimarrà isolata.