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Ivan Barone lo avrebbe saputo da Luigi e Marco Abbruzzese; al parla-parla che si faceva nel gruppo criminale, sostiene di essersi abbeverato, invece, Francesco Greco. Gli ultimi due pentiti che puntano il dito contro Roberto Porcaro, si aggiungono a un elenco già nutrito di collaboratori che, in tempi diversi, lo indicano come mandante dell’omicidio di Pino Ruffolo (23 settembre 2011). Proprio le loro dichiarazioni sono valse al viceboss, tuttora detenuto per “Reset”, una nuova ordinanza di custodia cautelare in carcere.
Quello più prodigo di dettagli è Greco, che agli inquirenti ha raccontato di essersi mosso come braccio destro di Porcaro in settori quali droga, usura ed estorsioni. Riguardo al delitto Ruffolo, lo stesso documenta da un lato «il silenzio» opposto dal suo capo sull’argomento, dall’altro la voce “para” diffusasi all’interno dell’organizzazione a proposito del suo coinvolgimento.
Il pentito riferisce inoltre di aver saputo all’epoca che Massimiliano D’Elia, l’esecutore materiale del delitto, era «molto scontento» per il fatto di aver pagato solo lui per quel crimine a differenza di Porcaro che, invece, l’aveva fatta franca. Tutto questo, Greco lo avrebbe appreso sempre in modo indiretto, da un codetenuto di D’Elia che ne avrebbe raccolto lo sfogo.
La circostanza più importante che riferisce il neocollaboratore, almeno a giudizio gli inquirenti, è in realtà un ragionamento bello e buono: D’Elia non avrebbe mai potuto autodeterminarsi a uccidere Ruffolo, nipote di un ergastolano, già esponente del vecchio clan Perna-Pranno. Per fare un omicidio del genere, rileva Greco, è sempre necessaria «un’autorizzazione» dall’alto.
L’ultimo elemento di novità da lui apportato alla vicenda è un dialogo con la vittima avvenuto poco tempo prima dell’agguato che conferma il movente legato all’usura, attività che, si ritiene, Ruffolo esercitasse in piena autonomia. In quel caso, quest’ultimo gli avrebbe confidato di aver ricevuto la richiesta estorsiva da D’Elia che, a nome del clan di riferimento, pretendeva da lui una parte dei suoi guadagni illeciti. Per tutta risposta, Ruffolo lo avrebbe picchiato, innescando così la spirale di eventi che di lì a poco porteranno alla sua morte.
Proprio alle sue dichiarazioni si affida in buona parte la Dda per ribaltare la narrazione giudiziaria della vicenda che, fin qui, si è imposta attraverso i processi. Per la morte di Ruffolo, infatti, è stato condannato solo D’Elia, con la sentenza d’appello, in particolare, che esclude la matrice mafiosa di quell’omicidio.