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Precedenti penali lontani, per certi versi remoti, e un’attualità di cui si sa poco o nulla. L’epitaffio giudiziario di Alessandro Cataldo non aggiunge granché al mistero della sua morte. L’unica certezza è che la spiegazione si nasconde tra le pieghe del presente e del suo passato.
Una vita difficile la sua, bagnata dal sangue del papà, guardia giurata, ucciso da un rapinatore di banche nel 1980, quando Alessandro aveva solo tre anni. Se chiedete di lui a Cetraro, un po tutti diranno che era un ragazzo buono e benvoluto, lo stesso che però a poco più di vent’anni si trova invischiato in logiche di criminalità organizzata. Il suo nome diventa noto alle cronache con l’operazione “Azimuth”, una delle prime contro il clan Muto. Cataldo conosce il carcere, ma verrà poi assolto da ogni accusa, ottenendo finanche un risarcimento per ingiusta detenzione.
Correva l’anno 2005, ma tempo un lustro e la storia si ripete. L’inchiesta “Overloading-Ippocamus” lo riporta nella polvere e, purtroppo per lui, dietro le sbarre. I sospetti sono quelli di “Azimuth”, tali e quali: della droga che arriva a Cetraro, anche attraverso canali esteri, lui è uno dei principali broker, con tanto di spacciatori al suo servizio. Stavolta le intercettazioni parlano chiaro, uscirne pulito non è più possibile. Del resto, in quell’inchiesta della Dda non recita la parte del comprimario, ma del protagonista. Tant’è che il nome in codice “Ippocampus” è mutuato proprio da quello della sua pizzeria. Il risultato è una condanna a dodici anni di carcere in primo grado che in Appello diventano nove.
Alessandro ne sconterà solo un paio, quasi tre. Perché nel 2012 gli viene diagnosticato un linfoma di Hodgkin, un brutto tumore dal quale riuscirà poi a curarsi con efficacia. All’epoca, però, farlo uscire dal carcere non sarà impresa facile. E’ lui stesso ad accendere i riflettori sulla propria salute, con una lettera inviata ai quotidiani dell’epoca. Chiede di poter tornare a casa per seguire il percorso terapeutico e conclude così il suo appello: “Con questo non voglio sottrarmi alle mie responsabilità che saranno accertate nel processo”.
Per tirarlo fuori dal penitenziario di Siano si mobilita Franco Corbelli, seguito dai Verdi e dai Radicali. A luglio del 2012 la prima richiesta di attenuazione della misura viene respinta, ma un mese più tardi arriva il via libera, ad agosto ottiene la detenzione domiciliare. Dopo la sua scarcerazione, il caso sarà anche oggetto di un’interrogazione parlamentare, sempre a firma Radicale, con cui si denunciano ritardi nelle cure mediche dovute alla sua scarcerazione poco tempestiva. Il Governo risponde che, invece, è tutto a posto, i Radicali sono indoddisfatti, ma Cataldo guarisce e il problema non si pone più.
Da allora, e sono trascorsi ormai undici anni, non si è più sentito parlare di lui in termini criminali. Mai più. Non tanto per i pentiti – che da quelle parti scarseggiano, anzi non esistono – quanto invece per le diverse inchieste giudiziarie in cui il suo nome non figura mai, nemmeno di striscio. Bisognerà attendere il 2020, quando è lui stesso a uscire dal suo cono d’ombra, stavolta attraverso i social, per autosegnalarsi come vittima di una strana intimidazione.
Alessandro, infatti, pubblica una foto del forno della sua pizzeria. Ignoti ne hanno fatto scempio, verosimilmente a colpi di mazza e martello. Rivolge loro parole amare, di rabbia e anche di sfida. Sotto sotto, forse, la considera una ragazzata. Da allora sono passati tre anni, un po’ troppi per azzardare un collegamento con i tragici fatti del 9 novembre. La foto del forno fatto a pezzi non vale dunque da anticipazione di eventi più gravi e luttuosi. Ne è solo il presagio sinistro.
