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Quando lavoravo alla tesi di dottorato, sull’obiezione di coscienza e sulla disobbedienza, mi imbattei in qualche caso (più letterario che realmente giudiziario) di “obiezione del boia”: i massicci incappucciati che eseguivano le sentenze di morte almeno talvolta si rifiutavano di liberare la mannaia o la ghigliottina sul collo dei condannati.
Era invece ben noto che boia e (dichiarato) colpevole non dovessero interagire se non al momento dell’esecuzione, per il tramite dello strumento mortale: il contatto crea cedimento, spinge a dover considerare l’altro non come fattore o come variabile, ma come persona. Essere in presenza garantisce la possibilità di difesa per un fatto logico prima che legale: è come essere offesi faccia a faccia, vedersi cioè garantiti quanto meno l’opportunità pratica di poter controbattere.
Su questa laica disciplina del misurarsi gli uni con gli altri si regge il processo giudiziale. Non è il migliore dei mondi possibili. Può diventare logorante per le ragioni di parte, se è troppo lungo (capita in Italia); può essere comunque viziato da un altissimo livello di competitività che a lungo andare ostacola anche la qualità del dibattimento (come negli Stati Uniti).
Ma è processo: è lo schermo, la mascherina, il dispositivo di protezione che pur in tutte le sue irriducibili fallibilità attua il diritto nella lite. L’impossibilità di accedere a luoghi pubblici, o aperti al pubblico, in numeri tali da favorire le occasioni di contagio è stata una delle caratteristiche normative di tutti i provvedimenti sul Coronavirus. Le regole di contenimento sono state forti e hanno fatto clamore più le eccezioni che le conferme: alcune civili, ma non agevoli (in Svezia), altre ambigue e chiassose (in Bielorussia), altre dannatamente luttuose (pensiamo alla mattanza brasiliana delle favelas). A Singapore pochi giorni addietro è bastata una videochiamata con l’ormai popolare servizio di Zoom per condannare un uomo, Punithan Genasan, alla pena di morte.
La pena di morte non si è estinta con la società giuridica che la aveva permessa e disciplinata; esiste ancora, forse perché ancora sopravvivono le idee di una giustizia vendicativa, dove un certo coefficiente d’illecito – più o meno grave, secondo i casi – vale la pena peggiore: la vita in cambio del verdetto sfavorevole. Certo, a volte c’è la pena di morte e a volte la “morte per pena” (quando le condizioni di esecuzione della medesima rendono impossibile l’esistenza), ma è raccapricciante abituarsi a una giustizia capitale, quanto lo è in fondo abituarsi a una giustizia “siderale”.
Una giustizia cioè che mette separazione fisica al massimo grado come asimmetria di poteri, una giustizia che esegue la condanna con un’applicazione per le videochiamate. È una giustizia, insomma, che nega la plastica prossimità anche simbolica della difesa processuale. Accanto al tradito principio del contraddittorio, vediamo messo in dubbio anche l’ancor più basilare “habeas corpus” (abbia tu il corpo!) che impedisce a chicchessia di usare fisicamente del corpo altrui a fini coercitivi. L’habeas corpus è la garanzia che spetta al supplice che dice “noli me tangere” (non mi toccare, non voglio che tu mi tocchi) – in verità, da Giovanni in poi, par che lo dicesse anche Gesù alla Maddalena dopo la resurrezione, ma l’esegesi biblica è tutt’oggi molto controversa.
Di certo, non la pensava così chi ha schiacciato il collo col ginocchio a George Floyd, un uomo di colore a Minneapolis, facendolo soffocare. Il cappio fattosi rotula era di un poliziotto locale, pare legato a filo doppio agli ambienti digitali della “supremazia bianca”. È per questo che abbiamo sottolineato che il Floyd fosse di colore. E non per la prima volta è un nero che trova sulla sua strada, ancor prima dell’iniezione letale dopo un processo, un abuso mortale in assenza di reato.
Cosa collega l’uomo mandato a morte con un click a Singapore con l’uomo strangolato da un ginocchio su un marciapiede? Forse nulla, chilometri di distanza, culture enormemente diverse, ordinamenti processual-penalistici a propria volta distanti. Eppure una cosa comune (non si vede ma) c’è. L’utilizzo ingiusto del potere nasce dallo sfruttamento degli altrui spazi vitali. Un marciapiede sbeccato con un ginocchio piantato sulla tiroide o un tasto senza possibilità di discredito: in nessuno dei due casi è stato concesso alla vittima il semplice e minimo spazio simbolico e fisico del dichiararsi contraria alla sua stessa morte. C’è da pensare.