Seguita il tentativo di ricostruire un lemmario di cosentine e cosentini illustri; non già per omaggiare un malinteso sabato del villaggio ed emisfero da cortile, quanto piuttosto per articolare una riflessione sull’attitudine della città a farsi portavoce di sensibilità (contro)culturali nella letteratura e nel diritto italiani del Primo e del Secondo Novecento. A differenza d’altri, Francesco Leonetti vive poco a Cosenza. La sua formazione è essenzialmente bolognese e anche lì c’è un significato generazionale, una comunità intellettuale che negli studi e nelle rivendicazioni sociali è spesso costretta a trasferirsi. 

Il rapporto con Pasolini

La sua opera è nota nella manualistica e nelle fonti letterarie soprattutto per la poesia e per il fecondo rapporto con Pierpaolo Pasolini. La prima è però valutata tendenzialmente come reazione di tinte espressionistiche alla crisi dei modelli realisti e neorealisti, come ricerca che si concepisce altisonante e sperimentalistica. Del rapporto con Pasolini, in fondo, in special modo il Pasolini dell’ultimo periodo, si finisce poi per darne una lettura prevalentemente di collaborazione o peggio di oscuramento rispetto alle ben maggiori fortune collettive dello scrittore bolognese. In un personaggio versatile come Francesco Leonetti ci sono almeno tre storie esistenziali e pubbliche fuse in una. 

Le opere di Francesco Leonetti

In “Fumo, Fuoco e Dispetto” del 1956 fa percepire il frizzante compianto per una formazione difficile, in un contesto ancora arcaico, tradizionalistico, dove la rappresentazione di un’alternativa – fosse anche la più razionalmente e legalmente argomentata – si dà sempre per eresia al potere costituito. 

Conoscenza per Errore” del 1961, in una nuova edizione poi al 1978, abbraccia le evoluzioni e le involuzioni della cultura vista da Sinistra. I militanti delle riviste erano fratelli a quelli delle fabbriche fino ai Sessanta, pur dando anche inconsapevolmente vita a una rabbiosa frammentarietà che si rivelò esiziale per un movimento che puntava a tutt’altro e che pure in qualche misura esercitò una sua egemonia sulla legislazione sociale filo-governativa (comunque redistributiva, statale, social-democratica). Quelle accese arrabbiature piene di speranza già nell’Incompleto del 1964 danno la misura di un ceto colto che non può mappare per intero la complessità del vivere, che deve darsi un metodo e che quel metodo può e deve definire, persino se su posizioni rivoluzionarie, nel solco della Costituzione repubblicana. 

L’ultimo Francesco Leonetti, più disincantato, è più vicino ai suoi esordi di quanto appaia: anima le riviste, lavora (anche troppo in largo) sui linguaggi.

Il piglio marxista-leninista 

Il Novecento e la filiazione delle Avanguardie non possono pensarsi in Italia senza le riviste e Francesco Leonetti le frequenta tutte. È in dialogo col Gruppo ’63, dal quale emergerà ad esempio Eco, ma il suo piglio marxista-leninista lo porta a diffidare di quelle sperimentazioni troppo inclini all’enigmistica, al ghirigoro, al vezzeggiativo. Redige invece il Menabò di Calvino e Vittorini con cui sviluppa consonanze etiche, oltre che linguistiche. È nella direzione di Alfabeta, anche se in un periodo in cui la rivista non è più in grado di agitare un dibattito di massa e di classe sulle ceneri delle autonomie e dei movimenti del ’77. Nel ’68 aveva fondato “Che fare?”, con Pomodoro e Di Marco. Il chiaro omaggio leninista è tuttavia compensato dalla costruzione di un ponte con le lotte sociali del periodo che invece mancherà quasi del tutto alla Sinistra istituzionale post-sessantottina. 

Cosenza e la memoria di Francesco Leonetti

La saggistica del Francesco Leonetti non è priva di ruvidezza; quella dell’impegno politico è però di rara concretezza e quasi rimanda al teatro di Brecht: l’intellettuale alla ricerca della linea marxista, ordinamentale e positivista, persino quando usa un linguaggio ricco di cambiamenti di senso e registro, misura il suo tempo con drammatica urgenza.  Di questo sentimento c’è traccia persino nei lavori tardi per “Campo” e “L’Immaginazione”. Dopo la sua scomparsa, la città potrebbe far di più per omaggiarne e attualizzarne l’opera e i presupposti. Un’operazione ermeneutica che direbbe qualcosa in più di ieri e molto, molto, di domani.