La pasta al forno della zia, il babà prima o dopo il caffè (ma anche prima e dopo) e poi «stravaccati sul divano» ad ascoltare “90° minuto” o a guardare “Domenica in” con i risultati delle partite in sovrimpressione. Alzi la mano chi non si è mai trovato a trascorrere «pomeriggi catastrofici» così, anche se poi catastrofici non erano. Ma noi non potevamo ancora saperlo.

Parla di tutto questo una delle canzoni più intense che Dario Brunori ha inserito nel suo nuovo album. “Pomeriggi catastrofici” è un po’ un inno a quelli della sua generazione, i quarantenni che vanno ormai per i cinquanta. È un viaggio a ritroso nel tempo, fino agli anni Ottanta del secolo scorso, quando il fine settimana di ogni adolescente medio era ipotecato da certi pranzi in famiglia a cui si aderiva, quasi sempre, con poca convinzione.

Li reputavamo catastrofici perché a prevalere era la voglia di essere altrove: per strada, a tirare calci a un pallone; a casa con gli amici davanti a un Commodore o a un Amiga, sempre e comunque calati in una dimensione che non andava oltre quella del gioco. Arriveranno poi i telefonini, con la loro illusione ipnotica, a darci davvero la sensazione di essere altrove e la certezza di essere più soli.

La storia di quei tempi lì, invece, è storia di condivisione, che Brunori ci racconta splendidamente in versi, con un brano che sembra “Come mammata facette” in stile Paolo Conte e un ritornello alla Petrolini. Un testo semplice e sincero, che, proprio come Conte, parte dalla descrizione in senso classico del “gruppo di famiglia in un interno” e si trasferisce poi sulle strade della Cosenza di una volta.

Brunori ci porta a spasso su quella che non è una Topolino amaranto, ma una più scattante A112 su cui «si va che è un incanto», nell’86 o giù di lì. Lo fa con lo stesso sguardo innocente di allora; e il risultato è che alla Napoli di Pino Daniele, alla Roma di Venditti, si può affiancare in modo credibile la visione trasognante della “piccola città” che già fu di Guccini e che oggi, invece, è tutta sua: di Brunori sas. 

Ci racconta di come il suo principale pensiero quotidiano dell’epoca non fosse poi così diverso da quello dei coetanei: assicurarsi sempre qualcosa da mettere sotto ai denti. Non a caso, uno dei suoi riferimenti cardinali citati nel brano è “Sasà”, celebratissima rosticceria di Piazza Valdesi che, ancora oggi, ha nei panzerotti e nei cuddruriaddri le specialità della casa.

Di “Sorrentino”, invece, ce n’erano due: si chiamava così la tavola calda di fianco al Citrigno che, per anni, ha sfornato indimenticabili – e a tutt’oggi inimitati – hot dog con patatine; l’altra invece era l’omonima pizzeria di via Caloprese dove, per la prima volta, i cosentini scoprirono la pizza a portafoglio. In versione “Margherita” oppure “Marinara”, con o senza acciughe.

L’accenno alla Pizzeria Romana, che garantiva una scelta più ampia di condimenti, chiude l’almanacco gastronomico, ma il viaggio per immagini prosegue con una tappa davanti a “Forgione”, lo storico negozio di scarpe di corso Mazzini. Il richiamo alle Stratos, tra i simboli di quel decennio – con lo strap o senza – tradisce una preferenza, ma celebra anche un’attualità. Quei modelli, divenuti pezzi di moderniato, sono ancora oggi reclamizzati in internet come «scarpe di tendenza che fanno moda solo a Cosenza». La menzione, dunque, ci stava tutta.

E poi quell’idea edulcorata della morte che, a una certa età, morte non è per davvero – «È volata su una stella» – un accenno di coro angelico e un ritornello via via sempre più trascinato, come in un certo teatro d’avanspettacolo; suggestioni che valgono un presentimento: la fine dell’adolescenza e l’ingresso nell’età adulta. «Se stai sempre in famiglia, nulla ti può accader», una condizione che si riteneva immutabile, così rassicurante da risultare noiosa. Ah, a saperlo prima che un giorno quei pomeriggi catastrofici sarebbero andati via, senza preavviso, per non tornare mai più.