Sono passati 10 anni, il 31 maggio 2015 mons. Francesco Savino prendeva possesso della diocesi di Cassano All’Ionio. Un cammino pastorale intenso, dieci anni di ministero episcopale con occhio particolarmente paterno nei confronti dei più fragili. Un Pastore che sempre privilegiato “il fare”, mons. Savino ha promosso iniziative di solidarietà sostenendo i giovani e le famiglie usando il dialogo aperto tra fede e cultura. La sua guida ha testimoniato una carità che si fa azione, un apostolato che non si limita alle parole ma si traduce in gesti concreti di fraternità e giustizia. Nel ringraziare Dio per il tempo di grazia in Diocesi, la comunità si raccoglierà in preghiera nella Santa Messa solenne del 31 maggio 2025 presso la Basilica Minore Santa Maria del Lauro, alle ore 18:00.

Savino che, come sempre, con grande disponibilità, ha condiviso con noi parole di sapienza e di fede.

Guardando a questi dieci anni, quale il momento più gratificante del suo ministero nella Diocesi di Cassano all’Jonio?

«Come ci ricorda Paul Ricoeur, l’identità si costruisce narrando: ecco perché questi dieci anni non sono solo un bilancio, ma un racconto di speranza che si scrive camminando. Rispondere a questa domanda è come sfogliare le pagine di un Vangelo vissuto tra le pieghe del Sud, dove le ferite e le speranze si intrecciano come ulivi antichi piegati dal vento eppure, ancora fertili di vita. In questi anni, non c’è stato un solo momento che io possa dire “più gratificante”, perché il ministero episcopale è un mosaico di istanti, un intreccio di volti, storie e silenzi. Ma, se dovessi scegliere un frammento che custodisco con particolare gratitudine, direi che il vertice di questo cammino è stato ogni volta che sono riuscito a restituire dignità a chi l’aveva perduta, voce a chi era stato ridotto al silenzio. L’esperienza più densa, più alta, è stata forse quella in cui ho sentito che la Chiesa si faceva davvero “tenda tra le tende”, carne tra le carni ferite della nostra terra. È accaduto in più occasioni: nel momento in cui ho potuto accompagnare i giovani a scoprire che sono portatori di sogni e non di destini scritti da altri; quando, nel carcere di Castrovillari, ho ascoltato lacrime diventare preghiera; o quando, nei borghi della mia Diocesi, stringendo le mani callose degli ultimi, ho capito che il Regno di Dio germoglia dove gli uomini imparano a riconoscersi non più come scarti, ma come figli amati.  Ricco di grazia è stato ogni incontro in cui ho potuto essere padre senza esercitare potere, ma solo offrendo prossimità.  Ogni volta che il potere smette di piegarsi al servizio, si innalza a idolo; e l’autorità, se non si fa dono, si contamina e si corrompe fino a farsi prepotenza.

In una terra come la nostra, spesso attraversata da logiche mafiose e da un senso tragico dell’abbandono, ogni gesto di Vangelo condiviso è una piccola Pasqua. Ecco il vero frangente significativo: ogni volta che il Vangelo non si è fatto solo parola predicata, ma gesto incarnato che abita le periferie dell’anima e del territorio».

Quali sono state le sfide pastorali più grandi che ha affrontato in questo decennio e come la Diocesi le ha superate o sta cercando di superarle?

«Le sfide pastorali non sono state solo ostacoli da oltrepassare, ma rivelazioni, prove attraverso le quali la Chiesa di Cassano ha potuto misurare la profondità della propria fede e la radicalità del proprio amore. Ogni sfida, in fondo, è una domanda che Dio rivolge al suo popolo: «Mi ami più di costoro? » (Gv 21,15).

La prima grande sfida è stata – ed è ancora – quella della disaffezione spirituale, dell’apatia esistenziale che attraversa soprattutto le nuove generazioni. Non si tratta solo di una crisi della pratica religiosa, ma di un’anemia di senso, di un’aridità simbolica.  Non è il rifiuto di Dio a segnare la distanza di molti giovani, ma il silenzio di una ricerca mai iniziata. Non hanno visto un volto credibile, né udito parole che sapessero di vita.

Nessuno ha mai mostrato loro un Dio vicino, capace di lasciarsi toccare, di sostenere le fratture senza respingerle, di abbracciare l’intero senza frantumarlo.  A questa sfida abbiamo risposto con la pastorale dell’ascolto e della prossimità, aprendoci a un’evangelizzazione che parte dal basso, che non presume di avere tutte le risposte, ma che si lascia interrogare dai vissuti, dai dubbi, dalle fratture. Le periferie esistenziali sono diventate cattedre, e i poveri, i fragili, i dimenticati, i migranti, i detenuti – il nostro popolo di Dio in cammino – sono diventati i veri teologi della speranza.

Una seconda sfida ha il nome di mafia e cultura dell’omertà. In questa terra, troppo spesso violentata da poteri massonici e logiche di morte, la Chiesa non poteva restare neutrale. Abbiamo scelto di essere parte, non solo di prendere posizione. Siamo entrati nelle ferite sociali, accompagnando le famiglie segnate dal lutto, ma anche accogliendo chi voleva spezzare il giogo dell’appartenenza criminale. È nata così una pastorale della legalità, ma ancora di più della liberazione interiore, perché priva di una rivoluzione dell’anima, nessuna riforma strutturale è possibile e duratura.

Infine, c’è la sfida dell’organizzazione ecclesiale stessa, spesso appesantita da modelli gerarchici stanchi, incapaci di interpretare le urgenze del tempo. In questi dieci anni abbiamo provato a snellire le strutture, a rinnovare le parrocchie, a risvegliare i carismi laicali, a formare presbiteri che non fossero funzionari del sacro, ma fratelli in mezzo ai fratelli. Una Chiesa sinodale, o non sarà più Chiesa.

Come la stiamo superando? Camminando insieme. Non abbiamo ricette pronte, ma abbiamo scelto la via dell’umiltà e del discernimento. Abbiamo imparato che la pastorale non è un piano da attuare, ma un popolo da accompagnare. E che l’unico modo per non smarrirsi è tenere fisso lo sguardo su Cristo crocifisso, che ci precede nei dolori e nelle speranze urgenti del mondo».