Le esperienze di partecipazione politica che ho vissuto, spesso in polemica contro i totem prevalenti, hanno contaminato l’agenda dei conflitti con temi che la proposta elettorale non aveva quasi mai preso in carico. Abbiamo percorso le lotte dell’antiproibizionismo, della questione penitenziaria, dell’accoglienza dei rifugiati e almeno tre generazioni di militanti in quel senso possono testimoniare che, contro tutte le retoriche reazionarie, non erano battaglie né woke né mainstream: era, anzi, ben chiaro che la questione sociale fosse essenziale e non laterale, rispetto a quelle attività.

Anche per questo non ho mai trattato con indifferenza le questioni amministrative. Ahinoi, non è vero non si mangino: si mangiano, o tolgono cibo, se non vengono incanalate, vissute, elaborate. E devo ammettere con la stessa sincerità che quel tipo di pensiero e il lavoro che ho fatto mi hanno reso molto interessato a vedere la trasformazione e a percorrerla: sono per l’ampliamento dei diritti di cittadinanza e delle norme per conseguirla. Sono a favore della consultazione di base delle comunità locali. Sono a favore della sussidiarietà, se e solo se in funzione di garanzia dei diritti. Credo al decentramento solo nella misura in cui crei autonomia e non la fisionomia giuridica di tagli di spesa (o della sua mala gestione).

Tutto questo per affermare che sul piano dei principi le unioni dei comuni, il rinnovamento partecipativo dei loro statuti, la possibilità di allargare le prestazioni sociali con maggiori risorse, non possono che incontrare il mio favore. È davvero così, oggi, in Calabria? C’è la attendibile possibilità che da una città unica dell’area urbana sorgano benefici di chiara, diretta, ricaduta collettiva?
Se vogliamo essere concretamente antiretorici, nella vita sociale la città unica già esiste nei fatti, negli spostamenti, nei luoghi di ritrovo e in quelli di privata abitazione; non è solo la triangolazione Rende-Cosenza-Castrolibero, ma comprende almeno Mendicino, Montalto e Marano, di là da confini e contiguità territoriali.

È una realtà composita di comuni istituzionalmente non connessi che motivano un pendolarismo interno mai sondato con strumenti equitativi – anzi, c’è il problema opposto della de-contrattualizzazione del rapporto di lavoro. È una realtà policentrica che vive nelle pratiche e, piuttosto, è da chiedersi cosa abbiano fatto le istituzioni a beneficio di quelle pratiche (dalla questione immobiliare alla rete dei trasporti, passando per l’inserimento lavorativo stabile, formato e garantito).

Non credo tuttavia possa essere un buon argomento contro l’unione amministrativa il semplice riferimento alla presenza di criminalità organizzata e di cd. “colletti bianchi” che certamente troverebbe modo di avvantaggiarsi. Non è un argomento funzionante, è una petizione per la debolezza e non per la forza del conflitto sociale. Il ponte sullo Stretto è inopportuno non perché (o almeno non solo) c’è fortissimo capitale mafioso a Messina e a Reggio Calabria, ma perché non se ne sono mai adeguatamente considerate le ricadute ambientali e sulle comunità locali.

Davanti alla paleolitica questione ferroviaria tra Calabria e Sicilia (e dentro le due regioni), il ponte non è nemmeno un placebo: rischia di diventare un peggioramento autorizzato. Il problema di Expo2015 non fu certamente l’approdo della criminalità ‘ndranghetistica nei salotti buoni di Milano: già c’era da almeno due decenni. Furono i capannoni costruiti e mai restituiti al riutilizzo collettivo, i rapporti di lavoro tutti precari (e sovente “a gratis”), l’affermazione di quel modello di food-over-tourism che sta distruggendo le classi popolari nei centri storici delle grandi città.

Per quello che mette conto osservare sulla “nostra” città unica, un elemento di gran lunga sottovalutato è la debolezza del dibattito pubblico in questa fase. Stanno intervenendo, e tra il si e tra il no, soprattutto esponenti di una classe politica già largamente sperimentata e non è nemmeno necessario metterla a giudizio. Semplicemente, non c’è un avanzamento di personalità nuove, di argomenti innovativi, di posizioni sociali più aderenti alla realtà. Non si parla di alcuni contenuti fondamentali (la razionalizzazione dei servizi non è la loro sostenibilità finanziaria, ma la loro diffusione e il loro miglioramento; la questione abitativa non è la promessa di colate di cemento, ma la qualità delle condizioni di vita).

Il referendum consultivo tra le popolazioni interessate non decolla, perché è chiaro sia nella percezione comune sia persino sul piano giuridico-formale che non sposterà, né concorrerà a modificare, un orientamento politico già formato. E, allora, su questa “città unica” c’è difficoltà a dire se il bicchiere sia mezzo vuoto o mezzo pieno. A malapena si vede un bicchiere: cosa ci sia dentro resta oggi nell’ombra.