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«Vado a votare ma non ritiro la scheda». Con queste parole la premier Giorgia Meloni ha risposto ai giornalisti durante le celebrazioni del 2 giugno in via dei Fori Imperiali. Una dichiarazione che ha acceso il dibattito sul significato e le conseguenze pratiche di questa scelta, proprio in vista dei referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno. I quesiti proposti dalla Cgil e dai Radicali toccano temi cruciali: licenziamenti, precariato, sicurezza sul lavoro e cittadinanza.
Meloni ha ribadito il proprio diritto di esprimere una posizione anche attraverso un’astensione consapevole. E in effetti la normativa lo consente: ogni elettore può scegliere se ritirare tutte, alcune o nessuna delle cinque schede referendarie. In caso di rifiuto totale, l’elettore ha diritto a entrare nel seggio e chiedere che il proprio gesto sia verbalizzato. Questo però non conta ai fini del quorum. Anzi, non viene nemmeno apposto il bollo sulla tessera elettorale, che è il segno ufficiale della partecipazione al voto.
Il quorum, per ciascun quesito, si raggiunge solo se vota il 50% + 1 degli aventi diritto. E si calcola separatamente per ogni scheda. In pratica, un cittadino può contribuire a raggiungerlo per un tema e boicottarlo per un altro. Le schede bianche o nulle, invece, valgono come partecipazione al voto e quindi si contano nel quorum, anche se non esprimono una scelta.
Nel caso del rifiuto, il presidente di seggio annota la volontà dell’elettore «in maniera sintetica», registrando le generalità e il motivo, eventualmente allegando dichiarazioni scritte. Ma la persona non viene registrata tra i votanti.
La scelta della premier, quindi, è perfettamente legittima. Ed è anche un segnale politico: partecipare senza contribuire. Un modo per influire sull’esito senza rafforzare il fronte del sì o del no.