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Mario (nome di fantasia) è un uomo distrutto: da qualche ora ha perso sua madre, che era ricoverata all’ospedale di Paola, e ora non si dà pace. «Abbiamo mangiato pizza e gelato fino a giovedì scorso – dice -, sembrava essersi ripresa, non ci credo che non ci sia più». Nonostante il dolore, sceglie di raccontare pubblicamente la sua personale, disastrosa esperienza vissuta all’ospedale San Francesco «affinché tutti possano aprire gli occhi e rendersi conto di ciò accade lì dentro», tra muffe, suppellettili rotti, sporcizia e le atroci sofferenze dei pazienti. «Solo nell’ultima settimana ne ho visti morire cinque».
Il ricovero
Per raccontare questa vicenda, che risulta contorta e piena di stranezze, almeno nel racconto di Mario, è necessario riavvolgere il nastro e andare per gradi. Tutto ha inizio con un primo ricovero della madre dell’uomo, che aveva 74 anni e da oltre un ventennio soffriva di problemi cardiaci. La donna si sente male circa due mesi fa e viene ricoverata per broncopolmonite nella clinica “Tirrenia Hospital” di Belvedere Marittimo. «Qui – ci dice il figlio della donna – ho trovato tanta professionalità. Mia madre è stata curata con umanità e amore». Poi le condizioni di salute hanno necessitato di ulteriori terapie, che però quella struttura non può garantire. Così la paziente viene trasferita in ambulanza all’ospedale di Paola. Qui il figlio, che è un noto professionista del Tirreno cosentino, scorge le prime controversie. Stanze e corridoi presentano muffa nei muri, alcune porte d’emergenza sono tenute chiuse con i lacci delle flebo, i soffitti presentano dei buchi da cui si intravede sporcizia e i pavimenti ricoperti di linoleum, apposito materiale che dovrebbe garantire maggiore igiene per i pazienti, sono lesionati. Per non parlare della pedana che conduce all’obitorio, realizzata senza alcun criterio.
La lunga degenza
Al nosocomio paolano la 74enne rimane per quasi tre settimane. In questo lasso di tempo, secondo quanto dice Mario nel suo racconto, i famigliari non riescono mai a parlare con il primario del reparto né ad avere notizie chiare e precise circa le reali condizioni di salute della congiunta. Per di più, d’un tratto, i responsabili decidono che, durante le visite di controllo dei sanitari, i caregiver dei pazienti devono uscire fuori dalla stanza e addirittura dal reparto. Lo fanno per ragioni di sicurezza. In quelle ore, una donna, parente di un’altra degente, ha esternato il suo disappunto nei confronti del personale sanitario in modo ritenuto del tutto inappropriato. In questo trambusto, Mario stringe i denti e prova a mantenere la calma. Il suo unico tarlo è che sua madre lasci l’ospedale il prima possibile e che lo faccio sulle proprie gambe.
La lenta agonia
Ma comunicare con i medici diventa un’impresa. «Ad ogni cambio turno ci sembrava di ricominciare da capo, dovevamo spiegare noi a loro che cosa era successo nelle ore precedenti. Per fortuna abbiamo trovato degli infermieri e degli oss straordinari, a cui va tutta la nostra gratitudine», tiene a precisare l’uomo. E sono proprio loro, oss e infermieri, che somministrano le terapie alle paziente 74enne, che in un primo momento sembra rispondere bene alle cure. I medici fissano le dimissioni per il 10 giugno. Ma la mattina di sabato qualcosa va storto. Il medico di turno riscontra nella paziente una grave carenza di potassio e annulla le precedenti disposizioni.
Nello stesso pomeriggio, la donna comincia ad avvertire un leggero prurito in tutto il corpo. Il mattino seguente fa colazione e chiede un caffè, ma quel prurito non le dà tregua. Nel giro di qualche ora la situazione precipita e la donna sembra perdere anche la lucidità. «Ha cominciato a non riconoscermi più – dice il figlio -, a non ricordare nemmeno i nomi dei nipoti. È stato terribile». A forza di grattarsi si scava la pelle, arrivando a strapparsi via il pannolone, con tutte le conseguenze del caso. In un primo momento, i medici, sempre allertati dai famigliari, prescrivono un’apposita crema che dovrebbe attutire i sintomi, e solo successivamente, quando le sue condizioni continuano a peggiorare, somministrano un antistaminico.
Il tragico epilogo
La vicenda si conclude, tragicamente, lunedì scorso. In mattinata la donna ha un arresto cardiaco e ad accorgersene non sono i medici che la tengono in cura, ma la nuora, che ha tentato invano di somministrarle una pillola. Quando i sanitari arrivano in stanza, chiedono ai presenti di uscire e cominciano a praticarle il massaggio cardiaco. Ma non c’è niente da fare, pochi minuti più tardi sono costretti a dichiarare il decesso. Mario, che arriva proprio in quegli istanti, si sente male: «Non posso pensare di averla persa, non ce la faccio. Fino a pochi giorni fa ridevamo e scherzavamo davanti a un gelato, adesso è andata via per sempre, non è giusto».
La rabbia di Mario
Al dolore, si aggiunge anche la rabbia. «Ho scoperto soltanto dopo che mia madre aveva contratto in ospedale la candida in forma sistemica – dice affranto -. Il prurito era dovuto a questo». Se l’infezione contratta proprio lì, tra le mura del nosocomio, possa aver avuto un ruolo cruciale o meno nel tragico epilogo, lo stabilirà la magistratura, dal momento che il figlio della donna ha scelto di adire le vie legali e denunciare l’accaduto alla procura della Repubblica di Paola.
«Intanto – specifica Mario -, mi preme denunciare pubblicamente che quella struttura in alcuni punti è fatiscente e di certo non adatta a persone malate o con difese immunitarie basse. Questo lo dimostrano le immagini, che parlano chiaro. Lo faccio, nonostante il dolore che mi porto dentro, perché quello che abbiamo vissuto io e mia moglie in quell’ospedale è disumano e nessun altro deve provarlo. Oltre alla sporcizia e all’incuria, abbiamo vissuto un senso di abbandono da parte dei medici, con cui non siamo riusciti a comunicare con serenità in oltre venti giorni di ricovero. E ora non mi do pace: se avessi saputo come sarebbe andata a finire, avrei preso mia madre in braccio e l’avrei portata via da lì. Non posso accettare di averla persa in questo modo. Io dico che le terapie sono importanti, ma anche l’umanità lo è e non dovrebbe mai mancare tra le corsie d’ospedale. Chi entra lì dentro sta lottando per la vita e dovrebbe essere trattato con amore, sempre, anche chi, come mia madre, ha un quadro clinico già compromesso».