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C’è un punto di non ritorno nella rapida (e inconsistente) collaborazione con la giustizia del boss di Cutro, Nicolino Grande Aracri, che lo scorso 9 giugno ha terminato il suo percorso con la Dda di Catanzaro. L’ufficio inquirente, diretto dal procuratore capo, Nicola Gratteri, lo ha dichiarato inattendibile a seguito degli interrogatori svolti nel mese di aprile, nel corso dei quali il potente ‘ndranghetista non ha convinto i magistrati Vincenzo Capomolla, Domenico Guarascio e Paolo Sirleo sui fatti che ha narrato, come prova del suo pentimento. («NON SO NIENTE DI FARMABUSINESS»)
Da Cutro a Cosenza, il potere della “Provincia” di Grande Aracri
Quando un criminale decide di collaborare con la giustizia, che sia uno “sgarrista” o un “Padrino”, deve per prima cosa accusarsi dei reati che ha commesso, eventualmente con l’ausilio dei suoi familiari, all’interno della cosca di riferimento.
Nicolino Grande Aracri, secondo la Dda di Catanzaro, ha cercato di “proteggere” i suoi familiari che dal 2013 ad oggi, arco temporale che il boss di Cutro sta passando in regime di carcere duro per le condanne definitive all’ergastolo per alcuni omicidi avvenuti tra la Calabria e l’Emilia Romagna, sono stati coinvolti in diverse operazioni antimafia della Dda di Catanzaro. Familiari e non solo. Anche professionisti di un certo calibro che avrebbero garantito supporto in attività illecite al boss di Cutro, capace negli anni di costruire la cosiddetta “Provincia” criminale, che comprende le province di Crotone, Catanzaro e Cosenza. Ciò significa che Nicolino Grande Aracri era il “Supremo” di questo territorio, considerando gli interessi nella Sila cosentina. Aveva anche l’ultima parola su quanto succedeva nella fascia ionica cosentina, dove i clan della Sibaritide, dall’inizio degli anni 2000 facevano riferimento a Cirò Marina. Il quadro oggi, sulla scorta delle indagini antimafia, sembra essere cambiato.

I dubbi della Dda di Catanzaro sul delitto Macrì
Nel corso di uno degli interrogatori, il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, pensando che il boss non stesse dicendo la verità, è intervenuto in modo deciso, prendendo in mano la situazione. Le sue domande infatti hanno messo in difficoltà – secondo quanto si percepisce dai dialoghi – lo ‘ndranghestista crotonese, il quale, a suo dire, era sincero circa alcuni omicidi commessi nella zona in cui comandava. Sono passaggi fondamentali, secondo gli inquirenti, che dimostrano il grado di “non credibilità” del boss.
E’ il 22 aprile scorso quando il procuratore aggiunto, Vincenzo Capomolla, richiamando l’omicidio di Raffaele Dragone, chiede a Nicolino Grande Aracri dettagli sull’uccisione di Antonio Macrì, maturato negli ambienti ‘ndranghetisti per un movente sentimentale. Il pm Guarascio, in tal senso, cerca di capire la ragione secondo cui la cosca Grande Aracri dovesse uccidere un suo affiliato per uno sgarro che la vittima avrebbe fatto alla famiglia Dragone. «Perché loro avevano fatto questa progettazione, perché dice, dice: una volta che se lo toglie di mezzo, poi lì in quel caso lo teniamo vicino a noi, questo era il problema, il suo problema» afferma il boss di Cutro, riferendosi ai Dragone. E nel passaggio successivo, l’uomo spiega che «un uomo che appartiene alla ndrangheta, non può commettere questi fatti qua, diciamo», ovvero intrattenere relazioni con più persone della stessa cerchia familiare.
Dove fu ucciso Antonio Macrì
Antonio Macrì, secondo quanto spiegato da Nicolino Grande Aracri, è stato ucciso in contrada Scarazze, luogo in cui abitava anche chi voleva vederlo morto. Il boss dice: «Lui, praticamente, con lo scooter era andato lì in contrada Scarazze e c’avìa fattu vidìra puru, cu u satellite c’avìa fattu vidìra puru inta quale capannone l’hanno ammazzatu a MACRI’, l’avevano ammazzato inta nu capannone e lo hanno messo su un rimorchio e lo hanno curvicatu e letame, ecco pecchì c’è tuttu u burdellu d’u letame e cose», pronunciando anche i nomi di coloro i quali lo avrebbero fatto fuori. Ed è proprio qui che arriva il punto di rottura con la Dda, tanto che Gratteri entra nel discorso e conduce l’interrogatorio.
Prima che succeda questo, Guarascio chiede al boss «“chi trasporta il corpo?”» e Grande Aracri risponde così: «Loro avevano un trattorino piccolo e avevano paura che il rimorchio spingeva il trattorino alla discesa di Cutro e hanno chiamato ad Ernesto mio fratello, dice, se ci potìa fare na cortesia che dovevano portare un certo letame, una carrellata di letame e Termine Grosso duva… duve Culicci dhani, adduva ci su i peschi insomma, non lo so se si chiama COLUCCIO, una cosa del genere, comunque uno che c’ha la pesche. Lì, quando è arrivato lì con il rimorchio, lì c’era “topolino”, c’era “topolino”. E praticamente dice, ci fannu: “Scarricallo qua, scaricallo qua, ca poi venanu ca cu a cosa e lu distribuisce inta u terrienu”. Quandu scaricannu questo letame, lo scooter rimane impigliato al rimorchio, quando scende, rimane impigliato al rimorchio e mio fratello sinne va, con il rimorchio poi se ne va, se ne va, praticamente, però vede che ha fatto così con il trattore per…» rendendosi conto dello scooter «ma non aveva visto il cadavere».

Interviene Gratteri. Ed è scontro…
Qui si cambia registro. E Gratteri interviene, chiedendo in quale anno fosse stato commesso l’omicidio «nel 2000» e che dote avesse in quel periodo «il padrino». Il procuratore, a a questo punto, è un fiume in piena. «E le sembra logico che delle persone si permettano solo a pensare di creare, di coinvolgere il fratello del “padrino” nel trasporto di un cadavere e senza che poi succedesse niente? Cioè, nella logica di ndrangheta, lei il giorno dopo, tutte quelle persone che hanno – stando al suo racconto – inconsapevolmente fatto trasportare il cadavere a suo fratello, li avrebbe dovuti squagliare come il sapone! Lei cosa ha fatto dopo questo, stando al suo racconto? Perché io non credo a questa cosa che lei sta dicendo, che suo fratello non sapeva che stava trasportando un cadavere non ci credo». E aggiunge: «Nella logica di ndrangheta, prima che suo fratello salisse sul trattore, doveva sapere che stava trasportando un cadavere, nella logica di ndrangheta, nel momento in cui la persona coinvolta era il fratello del capo».
Grande Aracri: «Mi arrabbiai…»
Tuttavia, Nicolino Grande Aracri spiega che questa circostanza lo avrebbe fatto arrabbiare, ovvero che il fratello fosse all’oscuro di quanto successo, e Gratteri chiede: «Cosa vuol dire arrabbiarsi? Un uomo di ndrangheta com’è che si arrabbia?», sentenziando che «quando c’è una tragedia poi si risponde, si fanno due tragedie», La chiusura finale, dunque, è emblematica, riguardo al fatto che chi ha ucciso Macrì non avesse un trattore con il carrello per trasportare il cadavere. «E ma si metteva in un portabagagli di una macchina, si prendeva un ragazzo – uno dei garzoni di ndrangheta, che ogni locale di ndrangheta ha 300 garzoni – si prendeva uno di questi garzoni, si metteva nel portabagagli chiuso in una busta di plastica e si faceva la buca e si sotterrava nel pescheto». L’ultima parola, però, spetta a Grande Aracri che chiarisce come il fratello se fosse stato consapevole di quello che stava succedendo, si sarebbe recato da lui, dicendo: «”aspetta che mo glielo dico a mio fratello”».