In attesa che il Riesame nei prossimi giorni inizi a valutare i ricorsi delle difese, nell’ambito dell’operazione “Affari di famiglia“, coordinata dalla Dda di Catanzaro, contro la presunta cosca di ‘ndrangheta “Calabria-Tundis” di San Lucido, è possibile analizzare quelle che sono state le valutazioni del gip di Catanzaro in ordine all’accusa principale contestata dai pm antimafia e dai carabinieri della Compagnia di Paola: il 416 bis.

Per il gip De Salvatore le condotte assunte dagli indagati nel corso delle indagini preliminari hanno dimostrato il “carattere” mafioso del sodalizio che, da quanto si legge nelle carte dell’inchiesta, sarebbe stato diretto da Pietro Calabria, già condannato a 5 anni di carcere per usura nell’operazione “Frontiera“. Prima di entrare nel merito delle singole posizioni, il giudice per le indagini preliminari di Catanzaro ha richiamato i principi giurisprudenziali che inquadrano la contestazione prevista dal codice penale, richiamando una sentenza della seconda sezione dell’ottobre del 2017, secondo cui «non è necessario che il membro del sodalizio si renda protagonista di specifici atti esecutivi del programma criminoso, essendo sufficiente che lo stesso assuma o gli venga riconosciuto il ruolo di componente del sodalizio o aderisca consapevolmente al programma criminoso, accrescendo per ciò solo la potenziale capacità operativa e la temibilità dell’associazione».

Presunto clan “Calabria-Tundis”, le singole posizioni

Il gip ritiene che «i gravi indizi di partecipazione all’associazione mafiosa devono essere certamente riconosciuti nei confronti di Pietro Calabria, il quale occupa il gradino più alto della compagine associativa, esercitando il ruolo di capo indiscusso, fissando i punti del programma, impartendo le disposizioni relative, tra l’altro ad estorsioni, traffico di droga e recupero crediti, gestendo l’aspetto patrimoniale e dirimendo controversie interne ed esterne. Il suo ruolo apicale è testimoniato dall’imponente mole di risultanze confluite in questo procedimento e, in particolare, dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia»,

Per il giudice cautelare di Catanzaro, invece, Andrea Tundis «ricopre una posizione a latere del capocosca coadiuvando quest’ultimo nelle principali attività illecite. Va ribadito in proposito l’elevato attivismo manifestato dall’indagato nel settore del narcotraffico e anche la sua tendenza a dare corso alle direttive del boss, in particolare quando si tratta di portare al suo cospetto soggetti debitori vittime di estorsioni».

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Gli altri presunti associati, secondo il gip, sarebbero Fabio Calabria, Giuseppe Calabria (assolto in “Frontiera) e Gianluca Arlia «risultati personaggi molto attivi nei settori più nevralgici per gli interessi della cosca qual il narcotraffico e le estorsioni nel cui ambito si sono resi costantemente protagonisti. La stabile dedizione a reati-fine volti a realizzare il programma criminoso del sodalizio mafioso rende evidente la loro partecipazione ad esso». Mentre «un ruolo stabile va riconosciuto anche a Michele Tundis principalmente quale armiere della cosca», sebebene le armi ritrovate dai carabinieri di Paola durante l’esecuzione dell’ordinanza cautelare, per il gip di Paola, non possono essere attribuite al soggetto in questione, finito in carcere anche per il sequestro della droga, «ma anche – continua il gip – quale concorrente in due vicende estorsive perpetrata sempre per conto del gruppo criminale».

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Infine, l’unico per il quale non sussistono i gravi indizi di colpevolezza, relativamente alla presunta partecipazione all’associazione mafiosa di San Lucido, è Andrea Alò, «rispetto al quale è emersa una partecipazione più attiva nel sodalizio finalizzato al narcotraffico. Oltre a questo dato, rileva un solo episodio nel quale Alò ha agito da mediatore per la riscossione di somme di denaro estorte da parte di Fabio Calabria. In relazione a tale episodio è risultato che Alò dopo un iniziale interessamento in favore della vittima si è fatto da parte lasciando che la persona offesa risolvesse la questione direttamente con Fabio Calabria. L’episodio rimane un caso isolato e, a fronte di questo, non vi sono altre risultanze che possano far ritenere Alò un soggetto affiliato anche all’associazione mafiosa».