La retrocessione aritmetica del Cosenza Calcio in Serie C non ha colto di sorpresa una città che da tempo aveva compreso il destino della propria squadra. Nessun dramma collettivo, nessuna illusione dell’ultima ora: la piazza ha assistito alla caduta con una lucidità che solo le delusioni accumulate negli anni possono generare. È una fine silenziosa, ma non per questo meno significativa.

A Bolzano si è chiuso un cerchio iniziato nel 2018 proprio contro il Sudtirol, davanti a 20.000 cuori rossoblù che sognavano il ritorno in Serie B. Una parabola lunga sette anni che oggi termina con un mesto ritorno nell’inferno della Lega Pro. Il tutto, in un silenzio che fa rumore: a distanza di 24 ore dal verdetto, il presidente Eugenio Guarascio alle 16.30 di lunedì 5 maggio non ha ancora rilasciato dichiarazioni, né chiesto scusa alla città. Un’assenza che pesa quanto un’ultima sconfitta.

A differenza delle retrocessioni del passato, come quella dolorosa del 2003 o dello psicodramma del 1997, stavolta non è la paura del fallimento a dominare, ma una disillusione profonda. Nel ’97 il presidente Paolo Fabiano Pagliuso si assunse pubblicamente la responsabilità, garantendo un’immediata risalita che puntualmente avvenne. Oggi, invece, manca la prospettiva, manca la parola, manca l’assunzione di responsabilità.

La tifoseria, da anni critica verso la gestione Guarascio, non chiede più spiegazioni o promesse. Chiede una scossa che assuma anche caratteri sociali: la cessione del club. Una richiesta che non arriva solo dai gradoni del Marulla, ma che ieri ha trovato eco (nuovamente) nelle parole del sindaco di Cosenza Franz Caruso. Il Cosenza retrocede, ma lo fa senza il conforto di una guida visibile, senza il segnale di un nuovo inizio. Ora più che mai, la città vuole che quella chiusura di ciclo si trasformi in una svolta, non solo tecnica ma soprattutto gestionale. Perché il calcio, a Cosenza, non è solo sport: è identità, storia e senso di appartenenza. E non può più permettersi di essere lasciato in balìa del silenzio.