Un segnale importante in un campo troppo spesso ostaggio di resistenze corporative e ambiguità istituzionali, ha prevalso il buonsenso e ha vinto la democrazia
Tutti gli articoli di Lettere e Opinioni
PHOTO
La notizia più importante di questa settimana è arrivata dal Senato: l’approvazione della riforma sulla separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante. In molti erano scettici, convinti che non si sarebbe mai giunti a questo risultato. Ma i fatti – concreti e misurabili – del Governo Meloni hanno smentito anche i più dubbiosi. È la dimostrazione che, quando c’è volontà politica, anche le riforme più complesse possono diventare realtà.
La riforma non è soltanto una svolta giuridica: è un atto di coraggio politico, un segnale chiaro di volontà riformatrice in un campo troppo spesso ostaggio di resistenze corporative e ambiguità istituzionali. È una riforma di buonsenso, di giustizia e, soprattutto, di democrazia.
In un sistema processuale diventato pienamente accusatorio con il codice del 1987, è impensabile che il giudice continui a condividere percorso, carriera, concorsi, attività associativa e persino il Consiglio Superiore della Magistratura con il pubblico ministero. In queste condizioni, non può esserci una reale terzietà del giudice — né nella sostanza, né nella percezione dei cittadini.
La difesa, in questo contesto, è spesso relegata a un ruolo marginale, mentre la Costituzione e i principi del giusto processo impongono parità tra accusa e difesa. Separare le carriere non significa punire la magistratura, ma rafforzare le garanzie democratiche, restituendo equilibrio al processo penale e fiducia nello Stato di diritto. Se ci fosse piena buona fede, dovrebbero essere proprio i magistrati a sostenerla per primi.
Ma questa riforma è anche – e forse soprattutto – una chiave di lettura politica. Sulla giustizia si gioca oggi la vera partita tra Giorgia Meloni ed Elly Schlein. E in questo momento, la premier si trova in netto vantaggio. Non solo per l’efficacia comunicativa con cui ha riportato la giustizia al centro del dibattito, ma perché ha scelto di mettere questa riforma davanti persino al premierato e all’autonomia differenziata.
Con questa operazione, Meloni impone il primato della politica, ristabilisce un equilibrio tra i poteri dello Stato e rompe quella subalternità, mai dichiarata ma spesso evidente, tra politica e magistratura. Una scelta che intercetta anche il sentire comune di una larga parte dell’opinione pubblica, delusa da distorsioni, protagonismi e opacità che, negli anni, hanno minato la fiducia nella magistratura inquirente.
La riforma apre ufficialmente la campagna elettorale per le prossime politiche. Se non dovesse raggiungere la maggioranza dei due terzi in Parlamento, si andrà al referendum, molto probabilmente in aprile. E se – come è prevedibile – il popolo italiano sancirà la riforma con un ampio consenso, Meloni potrà capitalizzare politicamente quel risultato andando al voto con il vento in poppa. Sarebbe un’operazione di grande intelligenza politica, un colpo da leader che ha visione e tempismo.
In questo quadro, significativa è la convergenza parlamentare: il sì di Azione di Carlo Calenda, l’astensione tecnica di Italia Viva, e l’imbarazzo di un centrosinistra che fatica a trovare una linea coerente. La giustizia, insomma, è tornata al centro non come slogan, ma come scelta concreta.
Ora la vera sfida sarà spiegare ai cittadini che questa riforma li riguarda da vicino: perché senza un giudice realmente terzo, non c’è né giustizia, né libertà.