Fingere di essere qualcun altro per ottenere un obiettivo, mettere pressione o, più semplicemente, darsi un tono. Prima che i social rendessero questo compito agevole, la quasi alla portata di tutti, la sostituzione di persona era un’attività tutt’altro che scontata, che richiedeva una certa ingegnosità. E che a volte determinava conseguenze spiacevoli per chi si appropriava dell’identità altrui. Fra i diversi casi verificatisi a Cosenza nell’ultimo decennio, due in particolare brillano di luce luminosissima.

Il finto Franco Perna

«Pronto, sono Franco Perna. Datemi ventimila euro, altrimenti…».  È il singolare tentativo di recupero credito operato a mezzo telefonico da un cosentino di 35 anni. Uno scherzetto che in seguito gli costerà l’incriminazione tentata estorsione. Gli andrà bene, ma non benissimo, nel senso che alla fine del processo i giudici riconoscono la legittimità del suo credito e lo ritengono colpevole solo per «esercizio arbitrario delle proprie ragioni». L’uomo aveva deciso di spacciarsi per il noto boss, nella speranza di ottenere quell’ingente somma di denaro da una donna veneta, moglie di un professionista cosentino. La signora 60enne aveva ribattuto di non conoscere nessuno con quel nome, ma dall’altro capo del filo, l’interlocutore aveva replicato così: «E allora chieda in giro chi sono io».

Per un’amica

Per quei fatti, il finto Franco Perna era finito sotto processo. A tradirlo, il contributo involontario offerto dalla sua sposa agli inquirenti. La donna, infatti, trovò le chiamate in uscita sul cellulare del marito e, temendo una tresca amorosa, decise di comporre il numero. Così facendo, però, svelò la vera identità del truffatore. In quel guaio, l’uomo c’era finito per dare una mano a una sua giovane amica. Una badante di nazionalità bulgara che, negli anni precedenti, aveva prestato servizio a casa del professionista con il compito di assistere la madre. Dopo la morte dell’anziana, il rapporto lavorativo si era interrotto e la ragazza aveva chiesto una buonuscita, ma senza ottenere soddisfazione. Ne era poi scaturita una causa civile che, infine, le avrebbe dato ragione. Con quella telefonata, dunque, il suo amico aveva solo tentato di accorciare i tempi del rimborso.

Lettere da un camorrista

L’altro caso vede protagonista un altro cosentino che, un anno prima, per uscire di prigione sceglie il modo «più peggiore» di tutti: minacciare il giudice con una lettera delirante in cui paventa per lui ritorsioni da parte di un noto clan di camorra. Alla fine le conseguenze sono tutte per lui: cinque mesi e dieci giorni di condanna per minacce aggravate dal metodo mafioso. Il sessantaduenne in questione, che con la camorra e i suoi derivati non ha mai avuto nulla a che fare. All’epoca era ancora detenuto nel carcere di Bari per scontare tre anni e quattro mesi per una vicenda di molestie sessuali. Confida nella liberazione anticipata, magari con l’affidamento in prova ai servizi sociali, ma Il Tribunale di sorveglianza respinge la richiesta, innescando la sua reazione scomposta. L’uomo, infatti, impugna la penna e scrive parole di fuoco contro il magistrato.

La dura legge di Avellino

«Mi hai rovinato e stai rovinando la mia famiglia» è l’incipit poco rassicurante a cui fanno seguito prima un invito – «Devi farmi tornare subito a casa» – e poi le minacce: «Se entro tre giorni non torno a casa, informerò i Bidognetti, e sai a chi mi riferisco». Si tratta di una nota famiglia casalese, ma evidentemente il diretto interessato non lo sa, tanto che nel prosieguo della missiva evoca «la dura legge di Avellino» alla quale assicura che si rivolgerà per chiedere aiuto. «Perché quella è la vera legge, non tu. E la dura legge è uguale per tutti. Pensaci: tre giorni». Sarà proprio questo il tempo impiegato per aprire un procedimento contro di lui. Interrogato sull’argomento, il finto camorrista si dispera, dice di aver partorito quell’idea in un momento di sconforto, malconsigliato da un compagno di cella, ma non conosce i Bidognetti, tant’è che nel suo delirio li associa a un ambito territoriale errato. Tutto inutile. Seguirà, infatti, un processo culminato nella richiesta di condanna, la sua, a nove mesi di carcere, che la dura legge degli uomini mitigherà in cinque mesi e dieci giorni. Tuttavia, la nuova richiesta di affidamento in prova, avanzata dai suoi difensori andrà poi a buon fine.  Oggi ha finito di scontare la pena, conduce una vita riservata e pare non voglia saperne neanche di scrivere la lista della spesa. Giusto così.