Nel procedimento abbreviato Reset sulla ‘ndrangheta cosentina, la valutazione delle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia costituisce uno dei punti centrali dell’impianto motivazionale adottato dal giudice Fabiana Giacchetti. Una disamina che non si limita alla mera elencazione dei verbali, ma che si articola in un’analisi approfondita della «credibilità soggettiva» e dell’“attendibilità intrinseca” di ciascun dichiarante.

«Numerosissimi sono i collaboratori di giustizia utilizzati in questo procedimento, alcuni dei quali imputati, altri estranei al processo, il cui contributo è però di fondamentale rilievo», scrive il giudice, precisando che si tratta di soggetti «pienamente inseriti nel contesto criminale cosentino». A quelli già esaminati in sede cautelare, si sono aggiunti ex imputati che hanno avviato un percorso collaborativo in corso d’opera – Ivan Barone, Roberto Porcaro, Francesco Greco – portando «significativi riscontri al quadro già agli atti, a volte anche indicando un novum probatorio».

Il tratto saliente emerso dalle dichiarazioni è la «sostanziale concordanza/coincidenza delle stesse», che ha consentito di leggere in chiave unitaria i dati investigativi e i comportamenti illeciti secondo una logica associativa. Un fenomeno che, secondo il giudice, rappresenta «la c.d. “convergenza del molteplice”, valorizzata dalla Giurisprudenza della Suprema Corte in tema di riscontri individualizzanti».

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Le dichiarazioni dei collaboratori – si legge ancora – «si fondono con le risultanze investigative acquisite dalla PG, in particolar modo con gli esiti delle intercettazioni effettuate», andando così a costituire un quadro probatorio solido, nonostante la provenienza da fonti eterogenee.

La giudice richiama la nota sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 1653/2003 per ribadire i criteri metodologici: «Va sciolto il nodo della credibilità del dichiarante, in relazione alla sua personalità, alle sue condizioni economiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati in correità, ed alla genesi remota e prossima della sua risoluzione alla confessione ed all’accusa di coautori e complici…».

Altro principio richiamato è la valutazione frazionata delle dichiarazioni: «Un giudizio di inattendibilità del chiamante in relazione a parte del racconto non dovrebbe estendersi automaticamente al resto delle dichiarazioni, purché queste reggano alla verifica giudiziale del riscontro».

Di rilievo anche l’indicazione secondo cui la piena credibilità non decade per il fatto che alcuni collaboratori abbiano preso visione dell’ordinanza cautelare prima di decidere di parlare: «Sono dati che inducono a ritenere che le dichiarazioni non siano state in alcun modo condizionate dall’avere avuto contezza di alcuni degli atti di indagine».

Il giudice evidenzia, a tal proposito, «l’assenza di motivi di astio nei confronti dei chiamati in correità», «la circostanza che essi abbiano fornito elementi nuovi e sconosciuti», «il fatto che si siano accusati di numerosi fatti delittuosi», «la possibilità di interpretare in modo coerente alcuni elementi grazie alle loro dichiarazioni».

Quanto alla validità delle prove, viene rigettata una delle censure difensive: «Non possono essere accolte le censure sulla dedotta non corrispondenza tra dichiarazioni indicate nella richiesta di misura cautelare e i verbali presenti in atti». L’art. 438 comma 6-bis del codice di procedura penale, sostiene la giudice, non è applicabile al caso in esame: «Gli stralci dei verbali di collaborazione riportati nella richiesta cautelare entrano a far parte del compendio probatorio e sono pienamente utilizzabili».

In conclusione, il giudice Giacchetti riconosce la centralità del ruolo dei collaboratori, valutandoli uno per uno nel prosieguo della motivazione. Una valutazione differenziata ma coerente, che ne conferma, in larga parte, la tenuta processuale.